Primi in questa Legislatura,
perché in quella precedente una Proposta di Legge sul Cognome Materno ebbe a passare dallo stadio di percorso
in girello, a piedini impacciati, al più avanzato di camminata in posizione
eretta, sino a quello di passo sicuro con cui uscire baldanzosamente dalla
Camera per bussare alla porta del Senato.
Lì
un’improvvida colata di gesso ne fece un sordido calco per scultura, per poi
precipitarla nel burrone delle aspiranti leggi decedute per sopravvenuta
decadenza della Legislatura. Operazione perfettamente riuscita.
Esistono due sistemi differenti per bloccare quel che non si vuol fare
giungere in Gazzetta. Il primo consiste nel dichiarare a tutto tondo un NO,
anacronistico, fuori secolo, censurabile. Insostenibile non solo sul piano
ideologico, ma perché grazie all’albero sempreverde del NO l’Italia ha già avuto
dal tribunale CEDU una condanna e la Corte Costituzionale dal canto suo ha lasciato intendere
di non poterne più di dover sollecitare un Parlamento, che ha
nicchiato in maniera invereconda. Un NO chiaro da barbari, sicuramente
incivile e tuttavia, nella sua stupidità, coraggioso.
Il secondo, che qualificherei come metodo “sporco”, consiste nel non esporsi direttamente ma nell’agire
affinché una Proposta di Legge non possa giungere mai a destinazione. Ci si
avvale allo scopo di sbarramenti, non dichiarati apertamente come tali ma
gestiti in maniera più occulta, o mediante presentazioni tardive di proposte
accompagnate dalle richieste – ma guarda un po’! - di rinvii, o con
piogge di emendamenti inutili e infiniti.
È qualcosa che accade per tutti i provvedimenti che una parte del Parlamento
non vuole e c’è il rischio che la ghigliottina delle leggi, mascherata da
solerzia sociale, abbassi la sua mannaia anche sul Cognome materno a figli e
figlie che preme per venire alla luce in questo scorcio di legislatura.
Passo ora all’estratto dell’inchiesta per la parte che direttamente mi
riguarda.
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Ottimista con qualche riserva - scrive Adelaide Barigozzi che nel suo testo cita anche la ministra Elena Bonetti e la giudice Daria de Pretis - si dichiara invece Iole
Natoli, giornalista e attivista
che della battaglia civile per il cognome materno ha fatto la passione di una
vita da ben 43 anni. «Secondo me dopo l’ordinanza della Corte costituzionale,
il Senato dovrà per forza intervenire», dice. «Il mio dubbio è un altro:
poiché ci sarà senz’altro chi si opporrà, potrebbe succedere che la legge
venga approvata in Senato all’ultimo minuto, così poi non ci sarà più tempo
per la Camera».
Natoli gestisce il blog e gruppo Facebook Il cognome materno in Italia ed è la memoria storica di una vicenda che si trascina da troppi
anni. «Quando alla nascita della
prima figlia ho scoperto che per darle il mio cognome dovevo rivolgermi
all’allora ministro di Grazia e giustizia, mi sono detta: “Ma come? L’ho
partorita io e devo chiedere il permesso?”.
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Interrompo lo stralcio
dall’intervista per rilevare come un tale sconcerto misto a indignazione è la
più naturale delle reazioni che la patrilinearità obbligatoria ha suscitato e
suscita nelle donne. In proposito invito all’ascolto delle parole che Carla
Bassu, docente associata di diritto pubblico comparato presso
l’università di Sassari, ha pronunciato in occasione di un Convegno svoltosi l’8 novembre del 2021
nella sede del Senato.
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Bassu, autrice tra l’altro del
libro “L’identità anagrafica” edito nel 2021, narra di esser dovuta ricorrere
anni fa insieme al marito a una pratica prefettizia, affinché la figlia potesse
avere accanto al paterno il cognome della madre, “che è anche suo patrimonio”,
rileva, “perché mia figlia è parte della mia identità e io sono parte
dell’identità di mia figlia”. Una discriminazione nei confronti della donna,
dichiara, da cui è stata profondamente ferita, esercitata tramite una
procedura denominata cambio cognome
“come se”, sottolinea acutamente, “il
cognome naturale, giusto”, possa
essere solo “il paterno”.
L’inconcepibilità di tale discriminazione, di un’evidente
amputazione dell’identità lei l’ha avvertita nella sua interezza anche per
via degli studi di giurisprudenza affrontati, per l’assimilazione di quei
valori e principi di uguaglianza, rispetto e dignità della persona umana di
cui la nostra carta costituzionale si è fatta portatrice nel lontano 1948.
Nella sua testimonianza sentita ritrovo
la mia stessa situazione, anche se nel mio caso gli
studi non sono stati di giurisprudenza ma di filosofia e soprattutto di
psicologia, sociologia e antropologia culturale. Il tema dell’identità mi era da anni tanto congeniale
che fui io stessa a chiedere una tesi sulla “Crisi d’identità in E. H.
Erikson”, di cui avevo apprezzato le opere.
Sono aspetti che molte persone non colgono. L’unità
della persona, che vive come un tutt’uno la propria esperienza di vita – in
questo caso di donna – e la formazione culturale che si è data, è spesso
sottovalutata dai più. Invece tutto ciò agisce nella psiche e non solo a
livello consapevole. Lavora incessantemente nell’inconscio. Crea fratture o
meglio le riconosce ed esige che siano riparate.
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In merito al mio articolo
del giugno 1979
“La soppressione della donna nella struttura familiare” contenente la prima proposta in assoluto per il cognome materno nell’Italia
repubblicana, centrata nello specifico sul doppio cognome,
preciso che prima di me
ci provò, non da saggista ma da deputato, Salvatore
Morelli nel Regno d’Italia. Se la sua proposta fosse sufficientemente
articolata o limitata a un semplice enunciato – per quanto strano possa apparire, una cosa del genere è accaduta in una
delle legislature precedenti - non è dato saperlo. Non ci sono documenti
in proposito nell’archivio del Parlamento, come ho verificato io stessa
grazie alla collaborazione della Biblioteca del Senato a cui mi sono rivolta
anni fa.
Torno adesso con un altro brano all’intervista avuta con Adelaide Barigozzi.
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«Il cognome patrilineare è il burqa culturale delle
donne: poggia su un’idea di possesso e prevaricazione da parte dell’uomo»,
continua l’attivista. «Ignorando fino a oggi i richiami della Consulta e le
pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, lo Stato ha permesso che
si diffondesse un malefico messaggio
che rende lecita la soppressione della donna nella struttura
familiare». La posizione di Natoli, che ha presentato al
Parlamento una petizione, è più drastica, rispetto ai Ddl. A suo parere, il
figlio dovrebbe prendere innanzitutto il cognome della madre poiché è la
prima persona con cui entra in relazione, in base al principio, da lei
elaborato, della “prossimità neonatale”. «Perfino le proposte di legge usano
un linguaggio patriarcale: tutte, nessuna esclusa, tra le opzioni possibili
citano il cognome del padre sempre per primo», osserva.
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Già, perché la tradizione, unita
al desiderio di non disturbare troppo il “nemico”,
pena l’affossamento della legge, fa sì che il tanto conclamato ricorso al
sacro ordine alfabetico, celebrato anche in tutte le Proposte presentate, venga
meno non appena ci si accosta all’ordine familiare patriarcale, che ci è
stato infilato nel cervello a viva forza. La famiglia è composta da “Padre,
Madre e Figli”, tuona ancor oggi il più noto esponente della Lega, occultando
in primo luogo il fatto che esistono vari tipi di famiglie, quella eterosessuale, quella omosessuale,
quella di elezione costituita da “parenti” prescelti - ovvero non tali per
vincoli di sangue - che ha già trovato legittimo ascolto in Germania e, ancora, quella che
figli non intende farne ma che è ugualmente famiglia.
Non è l’unica dimenticanza che impera. La sequenza “Padre,
Madre, Figli” con cui si descrive quella che si intende come “famiglia
tradizionale” e che io chiamo “eterosessuale generativa” in quanto intende
generare figli, nasconde spasmodicamente una differenza fondamentale. Madre e padre forniscono la metà del patrimonio
genetico che avrà il figlio, apporto fin qui paritario, ma senza la madre che
trasmette il DNA mitocondriale consentendo lo sviluppo del “concepito” (rarissimi i casi, che sarebbero stati scoperti
di recente,
di una trasmissione
per via paterna), senza la madre che – sola - oltre a far ciò mette al mondo… non c’è padre generante che tenga.
Allora io
propongo a TUTTE le donne di cominciare a cambiare il linguaggio. Non recitiamo più come una
giaculatoria o una posta di rosario (oggi
il leader della Lega m’ispira…) che la “famiglia eterosessuale generativa”
(dunque, ripeto NON l’unica famiglia
esistente) è composta da “Padre, Madre e Figli”, ma da “Madre, Padre e
Prole”. Se la parola prole suona ostica allora diciamo “Madre, Padre, Figli e
Figlie”, formula in cui la posposizione del genere femminile della prole
trova la sua unica giustificazione possibile nel salvagente alfabetico, a cui
si aggrappano con palpabile angoscia TUTTE le proposte di legge, quando
scartano l’ipotesi più democratica del sorteggio - saggiamente adottata in
Lussemburgo - nei casi di discordanza tra i genitori sulla sequenza da
attribuire ai cognomi.
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6
marzo 2022
Iole Natoli
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