Per il gruppo di Facebook “ITER DEL COGNOME
MATERNO IN ITALIA nei regimi di matrimonio e di convivenza”, all’INCONTRO
di Roma del 28 Gennaio 2012 presso la Federazione Nazionale delle Stampa,
volto alla creazione della RETE DELLE RETI delle Donne, sarà letto un
estratto del presente documento dal titolo:
DIRITTI
CIVILI, COGNOME MATERNO E OMISSIONE DI STATO
di Iole Natoli |
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Palermo, 1980 - Il Cognome materno in
Tribunale
Da sinistra: Rosa Bianca Colonna, Lina
Noto, Iole Natoli.
Dietro: Daniela Dioguardi per l'UDI.
Un'avvocata e una giornalista da
destra.
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Ci è capitato più di una volta di chiederci
in quale modo una di noi reagirebbe, se il conducente di un bus le dicesse:
“Non puoi sedere in un posto anteriore come gli uomini, A TE spettano solo
quelli in fondo”. O un vigilante la bloccasse affermando: “TU non puoi
entrare in un locale pubblico, senza che un qualche maschio ti accompagni”. O
se un preside di scuola le impedisse di firmare la giustificazione delle
assenze d’un figlio, sostenendo che l’atto spetti al padre.
Ritenendo, a ragione, che in Italia non sia possibile
permettersi questo, reagirebbe con una bella denuncia, benché non faccia
altrettanto con lo Stato che impedisce a ogni donna coniugata di registrare
con il suo cognome i figli, partoriti in prima persona da lei.
“TU NON PUOI OFFRIRE IL TUO COGNOME A TUO FIGLIO, SOLO IL
PADRE DEL TUO BAMBINO PUÒ FARLO” è l’affronto di marca italiana che viene
fatto alle donne sposate, il sigillo di una diseguaglianza di base che
condiziona la coscienza in formazione dei figli, determinando sottotraccia un
percorso che può condurre alla violenza sessista. Il Gruppo ITER DEL COGNOME MATERNO IN ITALIA nei regimi di
matrimonio e di convivenza, nato
nell’aprile 2010 su Facebook, intende opporsi con determinazione
e con forza al perdurare di una discriminazione di genere, colpevolmente
operata dallo Stato.
Ne è
stata fondatrice Iole Natoli, che avendo scritto fin dal giugno 1979 sul
cognome materno negato e formulato un progetto di legge sul doppio cognome
- portato a più riprese a conoscenza di buona parte della sinistra
parlamentare italiana -, avviò nel 1980, a Palermo, una causa civile
contro lo Stato, la prima che affrontasse l'argomento. Con quell'atto
sollevava eccezione di costituzionalità dell'art. 237 comma 2 del codice
civile, in relazione agli artt. 3 comma 1, 29 comma 2 e 30 comma 1 della
Carta Costituzionale, e chiedeva
l'aggiunzione del suo cognome a quello già posseduto dalle figlie. Il Tribunale
di Palermo, con sentenza nº 865 del 1982 (presidente Stefano Gallo, giudice
relatore Salvatore Salvago), dichiarò non
fondata l’istanza, che pertanto non giunse alla Corte.
A quella causa ne seguirono altre, che,
vincolate al regime matrimoniale, non ebbero risultati positivi.
Nel gennaio del 2000, il Tribunale dei Minori di Milano dava
parere favorevole al ricorso di una coppia di fatto - Francesca Manna e
Franco Perini, fondatori di un sito sul tema - disponendo il mantenimento del
solo cognome materno per il figlio, che era stato riconosciuto dal padre con
atto volutamente successivo al riconoscimento della madre. Un buon esito di
natura parziale, dovuto a un espediente intelligente, che sottolinea un
enorme paradosso: per lo stato italiano è necessario in primo luogo rifuggire
dall’istituto matrimoniale, affinché i figli possano avere il solo cognome
materno (o tutti e due, come già prima di allora era previsto in caso di
successiva "legittimazione" - termine che sarebbe forse
scomparso dall'uso corrente, se il DL C.3184 consegnato dalla Camera al
Senato, dove giace indiscusso con la sigla S.2085 dal 5.07.2011, fosse stato
già trattato e approvato.
Come ha affrontato fino ad oggi il problema la Corte
Costituzionale italiana? Limitiamoci qui, per brevità, al suo discusso atto
più recente. Con sentenza n. 61 del 16 febbraio 2006, bocciava come in
altre occasioni la richiesta di una coppia sposata milanese, impedendole
di poter aggiungere il cognome materno al paterno, acquisito come d’uso dal
figlio. Invitava però il Legislatore a modificare la situazione in atto, che
risulta incompatibile con la “Convenzione delle Nazioni Unite
sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne”,
adottata dall’ONU il 18.12.1979 e ratificata dall’Italia nel 1985. "Un
colpo al cerchio e un colpo alla botte", come recita un detto
popolare, si sarebbe spontaneamente indotti a concludere, benché in
realtà non sia poi così semplice.
Passiamo dai Tribunali al Parlamento e ritorniamo al 1979.
Nell’ottobre di quell’anno la socialista Maria Magnani Noya presentava alla
Camera il primo progetto di legge per la modifica del sistema patrilineare,
prevedendo un solo cognome per i figli, paterno o materno, concordato
direttamente dai coniugi. La proposta non fu mai discussa. Non ne furono
discusse neanche altre presentate alla Camera e al Senato. Al momento attuale,
abbiamo 2 proposte di legge sul cognome doverosamente ferme al Senato e ben
altre 6 alla Camera, arenatesi dopo una discussione iniziale e prossime anche
queste a decadere per la fine imminente della legislatura. Il tutto benché il
Consiglio d’Europa fin dal 1978 abbia invitato più volte gli Stati membri a
cancellare ogni discriminazione basata sul sesso, nelle regole che
determinano il cognome della famiglia e dei figli.
I progetti ormai agonizzanti in Parlamento si differenziano
tra loro per essere incentrati sul cognome unico opzionale, o solo su quello
materno (on. Pisapia nella XIII Legislatura e sen. Milziade Caprili nella
XV), oppure sul doppio cognome, o per contemplare entrambe le possibilità
affidando la decisione ai due coniugi.
La scelta tra queste proposte è indifferente? Nel dibattito
all’interno del gruppo si sono espresse differenti considerazioni al
riguardo. Per alcune, la reale efficacia di un progetto sul cognome opzionale
è a rischio. Con buona probabilità, solo le donne più forti e motivate
riuscirebbero a far avere ai figli il loro cognome. Nella maggioranza dei
casi, non si andrebbe nemmeno a un eventuale sorteggio: il cognome paterno
prevarrebbe e con questo si perderebbe quell’opportunità di progresso civile
che il sistema del doppio cognome consente. L'obbligo di attribuire anche il
cognome materno costituisce infatti un elemento in grado di sconvolgere non
solo gli assetti antidemocratici di molte famiglie italiane
"native", ma anche quello delle famiglie di alcune comunità di
immigrati, nelle quali la donna ha per gli uomini il valore e il potere di
uno zero.
Il Gruppo “ITER DEL COGNOME MATERNO IN ITALIA nei regimi di
matrimonio e di convivenza” sostiene che il diritto al cognome materno
di figlie e figli debba essere posto tra i Principi fondamentali di una
Carta dei Diritti delle Donne, come il diritto al lavoro figura tra i
Principi fondamentali con cui si apre la Carta Costituzionale della nostra
Repubblica, e ritiene che tale lotta specifica, per la tutela della dignità
delle donne e dello sviluppo umano della prole, sia da iscrivere in un
progetto unitario comune.
Come appare fin troppo manifesto, non basta affidarsi solo al
Parlamento: iniziative legislative sul tema, dissoltesi per inerzia colpevole
nel nulla, ne abbiamo viste scorrere già troppe. E non basta che singoli
soggetti affrontino azioni legali coraggiose, predestinate tuttavia al
fallimento. Grazie alle varie esperienze precedenti, è divenuto possibile
oggi approntare azioni multiple precise, che attacchino il tallone d’Achille
del sistema, che esiste e che va dunque utilizzato. Prima possibilità, con
un'istanza avviata da qualche madre i cui figli, essendo nati da più unioni
matrimoniali, non sono uniti e resi pari tra loro da un cognome di famiglia
comune. O, altra via, con l'istanza di una qualche coppia convivente,
che dopo aver dato entrambi i cognomi al primo figlio si sposasse, generasse
daccapo e presentasse richiesta di entrambi i cognomi per il secondo, nato
stavolta in regime matrimoniale. Pretenderebbe in un caso del genere lo Stato
che di due fratelli, nati dagli stessi genitori, avesse il
doppio cognome uno soltanto?
Sono, è evidente, strategie giudiziarie mirate, che vanno
stimolate, organizzate e sostenute in modo ampio da chiunque operi, in
territorio italiano, nell’ambito delle Pari Opportunità.
Il primo passo in questa direzione da compiere è organizzare
in modo congruo strumenti atti a raggiungere capillarmente le donne, per
riuscire a coinvolgere i soggetti nelle possibili azioni da avviare. Spot televisivi
e video, da rendere ben visibili per Internet e che evidenzino in modo breve
e chiaro il problema, sono gli alleati migliori cui ricorrere. Con il
sostegno economico, s’intende, che il Ministero e gli Assessorati delle Pari
Opportunità hanno modo ben concreto di dare.
I Convegni sono preziosi e necessari, ma sarebbero del tutto
insufficienti se i diversi problemi delle donne dovessero essere discussi e
sviscerati solo in taluni centri del sapere. I mezzi tecnologici già
esistono. È sufficiente coordinare gli sforzi, scegliere i linguaggi
mediatici appropriati, investire economicamente nelle idee, perché il FUTURO
DELLE DONNE sia ADESSO.
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Milano, 18 Gennaio 2012
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L’INCONTRO
di ROMA del 28 Gennaio 2012, per la creazione della RETE DELLE RETI delle
Donne, si svolgerà presso la Federazione Nazionale delle Stampa, in C.so
Vittorio Emanuele II, 349, dalle h 10,30 alle h 17,30.
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Il cognome patrilineare, in Italia come in ogni Paese in cui vige, è il burqa culturale delle donne (©Iole Natoli).
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Coincidenze singolari. Il nome della campagna lanciata il 1º maggio 2013 da Aurelio Mancuso, presidente dell’Associazione Equality Italia è identico al titolo con cui il 4 giugno del 1980 il quotidiano La Stampa commentava la causa civile che avevo promossa a Palermo per il cognome materno: NEL COGNOME DELLA MADRE.
RispondiEliminaVediamo un po’, quanti anni sono passati esattamente? 33 meno un mese e 3 giorni… E, “ovviamente”, non è intervenuto ancora un mutamento.
Copio e incollo da un altro articolo di questo blog: «Nel 1978, con Risoluzione n. 37 del 27 settembre, il Consiglio d’Europa proclama la necessità che i Paesi membri adottino legislazioni rispondenti al principio dell’uguaglianza dei coniugi, anche in tema di cognome dei figli. È solo il primo gradino di un processo, articolato mediante varie scansioni. Seguono infatti: la Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW), adottata dall’Assemblea Generale il 18.12.1979, in vigore internazionale dal 3.09.1981 e in vigore in Italia, tramite precedente ratifica, dal 10.07.1985; due Raccomandazioni del Consiglio d’Europa, la n. 1271 del 1995 e la n. 1362 del 1998; il Trattato di Lisbona, con atti finali del 13.12.2007, e infine la Ratifica italiana del Trattato, con Legge n. 130 del 2.08.2008».
Ma quanto è solerte lo Stato italiano nel rimediare ai suoi vulnus!