Lo spartiacque di una sentenza storica IL CERINO DI STRASBURGO infiamma l’Italia e il Governo vuol correre ai ripari
di Iole Natoli
| |
“Era ora!”, si esclama da più parti. Dal primo progetto parlamentare sul cognome materno dell’ottobre 1979 di Maria Magnani Noya alla netta condanna di Strasburgo, determinata dal ricorso Cusan-Fazzo alla Corte Europea, sono passati ben 34 anni e tre mesi e il Governo, che nelle scorse legislature ha lasciato tranquillamente decadere i diversi progetti non mettendoli mai all’ordine del giorno, si appresta in questa a varare una riforma.
Dopo altri tentativi giudiziari andati a vuoto - il primo certo è del 1980 conclusosi nel 1982 presso il tribunale ordinario di Palermo con un nulla di fatto - nel 1999 nasce alla coppia Alessandra Cusan e Luigi Fazzo una bambina, che i due coniugi vorrebbero acquisisse il solo cognome materno, come desidera soprattutto la madre con il pieno sostegno del marito. Neanche a dirsi, ottengono un deciso rifiuto. A dispetto della concorde volontà dei genitori, la bambina viene registrata come tutti gli altri bambini di coppie coniugate e cioè col cognome paterno d’ordinanza.
Alessandra Cusan, tuttavia, non trova di suo gradimento questo abuso - ormai possiamo definirlo così a pieno titolo - e Luigi Fazzo dal canto suo non è tipo che accetti facilmente una pretesa del tutto priva di consistenza giuridica, avendo peraltro un’ottima confidenza con la legge (è avvocato). La strada è impervia ma i due cominciano l’iter.
Primo no del tribunale ordinario di Milano nel 2001. Al secondo no del tribunale d’Appello del 2002, si rivolgono alla Cassazione che nel 2004, ritenendo non infondata l’eccezione di costituzionalità sollevata, passa il caso in questione alla Consulta.
La Corte costituzionale, non esistendo di fatto una legge atta a regolare diversamente l’attribuzione del cognome, nel timore di creare un vuoto legislativo si pronuncia negativamente e rimanda il procedimento alla Cassazione, che viene con ciò obbligata a stabilire che la bambina deve continuare a portare il cognome del padre.
I coniugi ricorrono allora alla Corte Europea in virtù della tutela garantita dall’art. 34 della Convenzione Europea dei Diritti Umani (CEDU). È il 13 dicembre del 2006.
Intanto nel 2001 e nel 2003 erano nati altri due figli. Anche per loro i genitori avevano avanzato in Italia richiesta di attribuzione del solo cognome materno. Questa istanza però, diversamente dalla prima, era giunta all’esame della Cassazione a Sezioni riunite. Ciò configurava l’eventualità che si ottenessero due sentenze diverse, con possibile differenza di cognome per i tre figli. La coppia pertanto preferiva interrompere l’iter giudiziario per i più piccoli lasciando in vita solo il ricorso alla Corte Europea per la maggiore.
Il 31 marzo 2011 i genitori chiedono al Ministro dell’Interno, come da normativa allora vigente, di poter aggiungere il cognome materno al paterno già posseduto dalla prole sulla base del rischio di estinzione del cognome materno. Il 14 del dicembre 2012 il prefetto di Milano concede la sua autorizzazione, trasformando il cognome dei tre figli in «Fazzo Cusan».
Ciò induce l’avvocata dello Stato italiano - cui la Corte Europea ha notificato il 7 febbraio del 2013 di aver considerato ricevibile e fondato il ricorso avviato anni prima dai coniugi, invitandolo a costituirsi controparte - a ritenere che questi non abbiano più la qualifica di parte lesa, essendo stata accordata loro la possibilità che il cognome materno fosse rappresentato nel cognome dei figli.
Non la pensano così i ricorrenti e per due differenti ragioni. L’una è che hanno ottenuto una modifica per via amministrativa e non giudiziaria - ovvero non per riconoscimento di un diritto, come chiesto all’origine del procedimento, ma per graziosa concessione di un Prefetto - l’altra è che la soluzione amministrativa, intervenuta peraltro a distanza di ben tredici anni dalla nascita della prima figlia, non corrisponde nemmeno alla loro richiesta iniziale, che era di registrarla con il solo cognome materno.
La Corte Europea, esaminato l’itinerario giudiziario precedente e le opposte deduzioni delle parti, reputa fondate le lagnanze dei coniugi e, sulla base del combinato di due articoli della CEDU, respinge le obiezioni dello Stato italiano, dichiarandolo espressamente inadempiente rispetto agli obblighi sottoscritti e ratificati nell’ambito del territorio nazionale con legge 4 agosto 1955.
I contenuti della Convenzione che hanno motivato il verdetto di condanna della Corte sono due.
L’articolo 8, che tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare, stabilisce al secondo comma che “non può esservi ingerenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di questo diritto se non nel caso in cui tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, sia necessaria alla sicurezza nazionale, alla sicurezza pubblica, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione delle infrazioni penali, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”. L’articolo 14, che enuncia il divieto di discriminazione, recita a sua volta che “il godimento dei diritti e delle libertà riconosciute nella presente Convenzione deve essere assicurato senza distinzione alcuna fondata espressamente sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o d’altro tipo, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minorità nazionale, la fortuna, la nascita o qualsiasi altra situazione”.
I ricorrenti avevano insistito nell’affermare che sotto l’ombrello protettivo dell’articolo 8 rientrasse a pieno titolo il diritto al nome (prenome + cognome) e che nel caso specifico l’ingerenza dello Stato avesse leso tale loro diritto, per ragioni non solo non adeguatamente definite da una legge (come invece l’art. 8 prevede) ma addirittura non necessarie rispetto ai fini perseguiti dallo Stato, configurando così una discriminazione basata esclusivamente sulla differenza di sesso (violazione dell’art. 14).
La Corte conclude dichiarando valide le ragioni dei due coniugi in quanto «una differenza di trattamento nell’esercizio d’un diritto enunciato dalla Convenzione non deve solamente perseguire uno scopo legittimo», quale potrebbe essere quello di garantire l’unità familiare o l’identificazione degli individui al fine del mantenimento dell’ordine pubblico, o altri aspetti di pubblico interesse; per la Corte «l’articolo 14 risulta ugualmente violato» se non è ravvisabile un «rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi utilizzati e il fine preposto».
Riesce in effetti difficile immaginare quali catastrofi pubbliche avrebbe potuto determinare per lo Stato italiano l’attribuzione del cognome Cusan alla bambina in luogo del cognome Fazzo, o quale disgregazione familiare sarebbe conseguita a quell’attribuzione, voluta peraltro da entrambi i coniugi, pericolosamente estendibile a macchia d’olio all’intera società. UFO-Cusan in approdo in Italia.
La sentenza si conclude con un invito allo Stato italiano a modificare la carente legislazione e le pratiche vigenti, per adeguarle agli articoli della Convenzione citati.
Più che di un invito si è trattato dell’enunciazione di un obbligo e sembrerebbe che lo abbiano finalmente inteso gli affezionati alle calende greche di casa nostra, che pare si siano magicamente svegliati dal letargo più che trentennale per approntare - si apprende solo dalla stampa non essendo reperibile alcun testo sul sito del Senato - una bozza di Ddl, che preveda il doppio cognome e anche il cognome unico a scelta, sulla quale lavorare davvero.
Se però la bozza tanto pubblicamente sbandierata contenesse davvero la previsione del consenso paterno, non solo ne verremmo mortalmente offese noi donne ma lo Stato si esporrebbe nuovamente ad altre bacchettate di Strasburgo, dato che un condizionamento così pesante del diritto e dell’autonomia femminile finirebbe per violare direttamente l’art. 14 della CEDU.
L’assurdità dell’ipotesi di un nuovo assoggettamento all’autorizzazione maritale di ottocentesca memoria (25 giugno 1865), mi ha indotta a elaborare una nuova Petizione coi primi articoli di una seconda Proposta di Legge, che includa questa stavolta anche la scelta (link in calce).
Quanto alle mie preferenze personali, esse vanno sempre al solo DOPPIO COGNOME PARITARIO (link in calce), che limitando la scelta dei genitori all’ordine degli elementi nel cognome del neonato, tutela in pieno TUTTE LE DONNE e non solo le più forti e fortunate - quelle cioè che hanno il bene di avere un cogenitore libero da pregiudizi ideologici - e al tempo stesso fonda il diritto del figlio di essere sempre collegato a ciascun genitore, nonché a sorelle e a fratelli che dovessero nascere da nuove unioni del padre o della madre.
È altrettanto vero però che un progetto includente la scelta consentirebbe a quei migranti che giungono in Italia con il solo cognome materno, o con il cognome di entrambi i genitori, di non vedersi più sostituita l’identità personale nei documenti italiani come avviene continuamente per adesso e come continuerebbe ad avvenire se il solo doppio cognome divenisse la regola di Stato. Insomma due diverse possibilità su cui riflettere, due proposte centrate entrambe, benché in modo diverso, sull’identità della persona.
Il tema della formazione dell’identità mi è sempre stato molto caro quale conseguenza dei miei studi universitari e di una tesi di laurea centrata sulla “Crisi d’identità nelle teorie psicanalitiche di E. H. Erikson”. Tuttavia il mio interesse per il cognome dei figli, culminato nel mio primo scritto del giugno del 1979 sull’argomento, La soppressione della donna nella struttura familiare, era in realtà antecedente.
Le parole pronunciate da Alessandra Cusan nel corso di un’intervista a repubblica.it, si adattano in buona misura anche al mio caso. Prima ancora di avere figli, ha spiegato Cusan, desiderava che non vi fosse tra lei e loro la frattura di un cognome diverso. Quando, prima ancora di fidanzarmi, io rilevavo la totale illogicità di un sistema che nel matrimonio riservava la trasmissione esclusiva del cognome - non giuridicamente dichiarata e malgrado questo effettiva - al genitore che non è impegnato fisicamente e psicologicamente nella crescita prenatale del figlio e nella sua messa al mondo, suscitavo lo sbigottimento di chi mi ascoltava. Altri tempi? Direi proprio di no, perché quel “Come mai?” è stato chiesto di recente anche ad Alessandra Cusan, riconfermando di fatto il paradosso: non l’assurdità della patrilinearità assoluta suscita abitualmente meraviglia nel pubblico, ma la richiesta della sua cancellazione.
Tra gli atti del I Convegno “Lingua e Identità di Genere” (Venezia, 2011), pubblicati col titolo “Nominare per esistere: nomi e cognomi” dall’Università Ca’ Foscari, c’è l’interessante relazione “Riferimento al genere e costruzione dell‟identità” di GIULIANA GIUSTI, che del Convegno è stata anche organizzatrice. A lei dunque qualche domanda sul rapporto tra identità di genere e linguaggio.
D. Perché le stesse donne si sono mostrate spesso scarsamente motivate nei confronti di una discriminazione evidente, che solo una sorta di cecità collettiva ha consentito di mantenere pressoché invariata sino ad oggi? Cosa ha impedito loro di maturare la consapevolezza di sé, inducendole viceversa ad accettare d’esser considerate strumenti di una genealogia tutta al maschile?
R. Le lingue, che sono strutture complesse i cui meccanismi sono ancora per moltissimi aspetti poco noti anche a chi li studia, sono acquisite in modo naturale e inconscio attraverso l’esposizione ai dati dell’ambiente, quindi attraverso l’interazione personale. Insieme all’acquisizione delle strutture grammaticali e dei significati, ci vengono trasmesse anche le modalità di interazione sociale, come comportamenti e contenuti culturali, che sono molto difficili da mettere in discussione perché non sono appresi razionalmente e vengono percepiti come ovvi, naturali, imprescindibili. Ma mentre sul comportamento sociale c’è molto più interesse e le conoscenze sono più divulgate, lo studio del linguaggio, nei suoi aspetti più formali come nel caso della declinazione di genere nelle lingue che hanno questa proprietà, è relegato ad una concezione antiquata della grammatica come “parlare bene, parlare corretto” che purtroppo ancora permane nella cultura che trasmette la scuola.
Credo che alcune donne rifiutano parole come ministra o ingegnera - che sono perfettamente parte del sistema di declinazione dell’italiano ma per motivi culturali non sono in uso, al contrario di maestro o cassiera - per timore di non aderire ad un modello di italiano prescrittivo. D’altra parte, la nostra cultura rafforza univocamente e coerentemente il valore di prestigio del ruolo maschile. È quindi comprensibile, anche se non condivisibile, che certe donne che svolgono ruoli di prestigio e potere percepiscano una diminutio nel caso in cui tali ruoli siano declinati al femminile. Poi c’è da dire che nel cambiamento linguistico un ruolo fondamentale è svolto sia dai mezzi di comunicazione e dalle agenzie culturali sia da alcuni indirizzi politici. La singola persona non è del tutto padrona di cambiare un abito linguistico del proprio gruppo sociale, pena essere indicata come “diversa”, una caratteristica ingombrante per una donna che ha appena raggiunto un ruolo di prestigio.
D. In alcuni Paesi è anche possibile attribuire ai figli cognomi differenti da quelli dei loro genitori, ad esempio nel Regno Unito, in Australia, in Slovenia. In questi ultimi giorni mi è capitato di sentire alcune persone dichiarare la loro preferenza per una soluzione di tal tipo. Qualcuno ha chiamato spregiativamente “familismo” la regola di attribuire un cognome che definisca l’appartenenza familiare. La questione mi lascia perplessa. Mi chiedo a quale necessità dell’individuo possa corrispondere questo atteggiamento che a me sembra esprima un desiderio inconscio di allontanamento del figlio da sé, una collocazione il più possibile esterna all’ambito familiare nel quale il bambino cresce e si sviluppa, oppure una vocazione modaiola, un tentativo di cancellazione forzosa delle radici, una sorta di viaggio verso il nulla. Sia ben chiaro mi riferisco all’istanza del genitore per il figlio bambino non all’eventuale richiesta di un figlio già adulto.
Tu come vedi quest’alternativa ipotetica?
R. Se il mutamento di abitudini linguistiche sui nomi comuni tocca un tasto sensibile, ancor più sensibile sarà la questione di identità individuale e sociale creata dal cognome. Vorrei di nuovo fare un’osservazione linguistica. I nomi propri, a differenza dei nomi comuni, hanno la proprietà di fare riferimento diretto - confrontiamo Gianna con ragazza o studente, che hanno invece bisogno di un determinante (la, una, questa) per avere un valore referenziale. La costruzione di identità personale parte proprio dal nome che ci danno appena nate e può essere un nome familiare differente dal nome anagrafico, per cui siamo Maria Giovanna ma solo Gianna per la famiglia e nei documenti, per una semplificazione d’uso, Maria.
Il cognome ovviamente colloca la persona in una discendenza familiare. Il fatto che la discendenza materna sia sempre oscurata, o sia messa in secondo piano (come continua ad accadere di fatto anche nei Paesi che hanno già adottato riforme) è un problema culturale forte. Sicuramente l’impatto di avere un cognome diverso da quello di entrambi i genitori, nel momento in cui se ne prende consapevolezza crea un’identità più indipendente dalla propria famiglia. Se questo sia un bene o un male, va probabilmente chiesto a una psicologa. Vorrei invece riflettere sull’aspetto di obbligatorietà o libertà dei genitori di mettere uno dei due cognomi o ancora un terzo. Credo che se non verrà scardinata l’automaticità del procedimento di trasmettere il cognome paterno, la maggior parte delle coppie rimarrà ferma alla consuetudine attuale, perché il nostro comportamento sociale acquisito inconsciamente come prima regola ci impone di uniformarci al gruppo. Ne è una prova quel che accade in Germania, dove è previsto che si scelga quale cognome di famiglia quello del marito o quello della moglie, che uno dei due coniugi sostituisca il suo originario con quello scelto e che questo cognome comune sia infine attribuito al figlio. L’esperienza dimostra che nella maggioranza dei casi viene privilegiato il cognome dell’uomo, cosicché non solo la patrilinearità continua a prosperare indisturbata ma addirittura la donna finisce col rinunciare alla sua identità. | |
Milano, 14 Gennaio 2014
|
© Iole Natoli
|
NOTA
| |
Questo articolo era stato scritto per la rivista on line Dol’s, che me lo aveva richiesto in via amichevole. Purtroppo per ben due volte, a causa di rifacimenti del sito, il pezzo è apparso con tagli a me mai chiesti e da me mai autorizzati, che ne svisano il senso e ne compromettono la corretta intelligibilità. Di conseguenza ho deciso di pubblicarlo nel mio blog, non essendoci peraltro nessun tipo di vincolo economico tra me e la rivista citata, né una qualsiasi cessione dei diritti.
| |
Link di riferimento
| |
Petizione con Proposta di Legge per il Doppio Cognome Paritariohttp://www.change.org/it/petizioni/nel-cognome-della-madre-e-del-padre-richiesta-di-emendamento-necessario-no-alla-casualità-e-no-alle-donne-sotto-tutela
| |
Petizione con Proposta di Legge per il Cognome a Scelta
|
Il cognome patrilineare, in Italia come in ogni Paese in cui vige, è il burqa culturale delle donne (©Iole Natoli).
▼
Nessun commento:
Posta un commento