Il 30% delle richieste di cambio
anagrafico chiede l'aggiunta del nome della madre
Diritto al cognome
Intervista
a Iole Natoli: "nessuna legge ci costringe ad adottare il nome
paterno"
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di Marta Ajò
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da: L’Indro (link)
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Nelle
6.000 richieste di cambiamento del proprio cognome, che negli ultimi due anni
sono state avanzate nel nostro Paese, si può dire che la tipologia più
diffusa, al 30%, è la richiesta di aggiunta di quello materno, seguita da un
20% per la richiesta di sostituzione del cognome paterno con quello materno,
cui seguono, in percentuale nettamente inferiore, richieste per
l’acquisizione di un cognome d’arte o il ripristino del cognome di origine. Fino
ad oggi, cambiare il cognome era una pratica molto lunga ed una procedura
riservata ai portatori di cognomi ridicoli o disdicevoli, o ai casi di
estinzione di cognomi per assenza di discendenti maschi, o ancora ai cognomi
di particolare rilievo, per lo più di natura nobiliare o commerciale.
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Con il decreto DPR 54/12 appena pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale 108/12, a partire dal 9 luglio di quest’anno
cambiare cognome sarà più facile per tutti: si cambia entro un mese dalla
richiesta.
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Ma se finora le motivazioni prima
elencate nel fare uso di questa procedura rientravano nella sfera delle
decisioni private, il riconoscimento del cognome materno, oggi più facilmente
consentito, comporta diverse implicazioni a cui anche questo DPR parrebbe
dare una risposta riduttiva. Non si comprende, infatti, per quale motivo il
nascituro debba acquisire alla nascita solo il cognome paterno, rinunciando a
sua insaputa, di fatto, ad una parte identitaria che viene trasmessa dalla
madre.
L’assunzione del cognome
paterno alla nascita in realtà non è mai stata prevista da alcuna norma del
codice civile ma è divenuta una prassi consolidata nei secoli. Questa
usanza, tradizione, consuetudine ma non legge, è divenuta nel tempo una
regola alla quale quasi nessuna/o ha avvertito la necessità di sottrarsi o di
opporsi consapevolmente.
La procedura è andata, di fatto, a confermare
una posizione di disparità della donna nella società, a cui per altro le
donne stesse si sono di frequente assoggettate e rassegnate fino a
condividerne la pratica; il solo cognome materno è stato spesso ritenuto
ed usato come elemento discriminante e riprovevole e in questo modo viene
ancora sentito in alcune realtà geografiche e culturali.
Non esplicitare la paternità riporta
immediatamente, per dirla come una volta, ai figli di NN (padre 'non
nominato') di antica memoria, comunque a una nascita fuori delle regole
convenzionali che contraddistinguono l’onorabilità della famiglia. Con
le richieste di cambiamento e di parità portate avanti nel corso degli anni
’70 dal movimento delle donne e la Risoluzione n. 37 del 27 settembre 1978
del Consiglio d’Europa, qualcosa ha iniziato a muoversi anche nel nostro
Paese. Nell’ottobre del 1979 Maria Magnani Noya, avvocata e deputata
del Partito Socialista Italiano, presentava il primo progetto di legge sul
Cognome dei coniugi e dei figli volto a cambiare la patrilinearità vigente
nella società italiana.
Ma quale è stato, nel corso di questi trent’anni, il procedere della via
legislativa? Per cercare di fare chiarezza e dare una risposta nel
merito, ci siamo rivolte a Iole Natoli che si occupa della questione
da lungo tempo.
Come è nata la voglia di lanciarsi
personalmente in questa battaglia?
Potrei
rispondere semplicemente così: perché, se sei una donna, sai che i figli
saranno fatti in primo luogo da te. L’idea del doppio cognome per me era
ovvia e la esposi nella mia famiglia di origine, più o meno intorno ai 16
anni, suscitando sconcerto generale. Alla nascita della mia prima figlia,
scoprendo che avrei dovuto inoltrare una richiesta al Ministro di Grazia e
Giustizia - così era allora - mi rifiutai, profondamente offesa, di
presentarla. Probabilmente non avrei nemmeno ottenuto un risultato, poiché
l’accoglimento era limitato a pochi casi particolari, ma a dissuadermi fu il
carattere che l’eventuale successo della pratica avrebbe avuto: un marchio
esclusivamente privato, di nessuna utilità per le donne. Io volevo
riconosciuto un diritto, non ottenere una gentile concessione da parte di una
qualche autorità.
Ed invece la causa successiva?
Fu un espediente legale che mi apparve strategico per dar
forza al mio progetto sul doppio cognome, elaborato e pubblicato a partire
dal giugno del 1979. Se l’eccezione di costituzionalità giunge alla Corte e
ottiene parere positivo, pensavo, vi sarà un vuoto legislativo e il
Parlamento dovrà correre ai ripari. La mia istanza non approdò alla Consulta,
perché bloccata in primo grado dal giudice palermitano cui fu assegnata, ma
se anche vi fosse arrivata non avrebbe prodotto l’esito sperato, come
dimostrano cause abbastanza recenti intentate da altri. La Corte invita
sempre il legislatore a una nuova legge, ma dichiara di non volersi
sostituire al Parlamento: di conseguenza rigetta le istanze.
Pensa che la parità passi anche da
riforme come questa?
La questione è complessa.
Noi non chiediamo il riconoscimento di taluni diritti solo per essere alla
pari con gli uomini: quei diritti ci appartengono e per natura e per statuto
civile. Manca l’articolazione pratica di essi, non la fonte originaria che
discende direttamente e dalla biologia e dalla Costituzione, dal nostro
essere cittadine dello Stato italiano a pieno titolo.
Inoltre il diritto al
cognome materno non concerne solo le madri ma è anche un diritto naturale e
giuridico delle figlie e dei figli, un diritto che lo Stato italiano non ha
fin qui rispettato istituendo le norme appropriate.
Un altro aspetto, che
direi primario, riguarda la conseguenza sociale dell’assenza del cognome
materno. Non soltanto l’immagine femminile diviene quella di un soggetto
minore, inidoneo a garantire ai figli la formazione dell’identità personale
mediante l’acquisizione di un cognome, ma il messaggio subliminale che viene
trasmesso all’intero corpo sociale è ancora più pericoloso, perché fonda
nell’inconscio collettivo l’idea d’una liceità legale della soppressione
della donna. Mai sottovalutare il potere positivo o negativo del simbolico: la
formula attualmente in uso veicola un’idea di soppressione che, rafforzata da
altri fattori sociali negativi e in alcuni soggetti da un’errata educazione
familiare, contribuisce ad alimentare non poco il femminicidio ricorrente.
Questo DPR risponde alle motivazioni
per le quali si chiede di volere aggiungere il cognome materno, quando
non recepirlo come assoluto?
Nessuna
motivazione che riguardi il cognome materno dovrebbe mai essere chiesta, anzi
il cognome della madre dovrebbe essere attribuito automaticamente alla
nascita. Non possiamo però aspettarci da un DPR, che è un atto di natura
amministrativa, che svolga quelle funzioni di modifica che la Corte
Costituzionale nega persino a se stessa. Ci vuole e con urgenza una buona
legge.
A volte è successo che padri, che
alla nascita hanno voluto dare il proprio cognome al figlio, abbiano voluto
poi toglierlo (magari per questioni ereditarie); un cambiamento che può
comportare gravi danni d’identità. Non è questo un punto cui dare una
soluzione?
Le voglie di possesso dei padri,
espresse mediante il proprio cognome, non dovrebbero mai ripercuotersi sui
figli. Non esiste nel nostro codice un diritto di trasmissione del cognome,
nemmeno di quello paterno, ma un diritto di acquisizione del cognome da parte
di figlie e figli, che scatta quale effetto della legittimazione. Di
conseguenza, visto che il cognome fonda l’identità personale della persona ed
è garantito dall’art. 6 c.c., le manovre reattive di padri, che mai devono
essersi sentiti tali se giungono a mettere in così seria difficoltà i loro
figli, biologici o meno, non dovrebbero avere accoglimento nel nostro stato
di diritto. “Non dovrebbero” non esclude che ciò possa anche accadere, nella
terra dei cavilli giuridici per eccellenza.
Molte legislature hanno visto
presentare progetti che si sono poi arenate nel nulla. Secondo la sua grande
esperienza (lei si confronta quotidianamente sul suo blog e nel suo
gruppo) quale caratteristiche dovrebbe avere la legge che 'vorremmo'?
Premetto che la mia esperienza, derivante da un’intuizione
personale antica, approfondita nel tempo dallo studio delle leggi in materia,
precede e non segue la creazione del gruppo e del blog. Quando non disponevo
di questi mezzi scrivevo altrove, utilizzando riviste e quotidiani. Parlerei
dunque di una lunga frequentazione del tema, che parte pubblicamente dal
giugno del 1979 e giunge ad oggi. Per capire quali caratteristiche
dovrebbe avere una buona legge, sarà utile evidenziare i limiti quanto meno
dei progetti più rappresentativi tra quelli approdati in Parlamento.
Comincerei dalla proposta dell’on. Maria Magnani Noya, dell’ottobre di
quello stesso anno, la prima in assoluto in campo parlamentare. Le norme
prevedevano che all’atto del matrimonio gli sposi, con dichiarazione resa
all’ufficiale di stato civile, stabilissero quale dei loro cognomi sarebbe
divenuto distintivo del nuovo gruppo familiare e attribuito di conseguenza ai
figli. Si precisava altresì che il coniuge il cui cognome non fosse stato
scelto avrebbe mantenuto il proprio, con facoltà di aggiungervi quello della
famiglia. Una formula poco incisiva, ma che costituiva già un serio tentativo
di rivoluzione culturale per l’epoca. Interessante leggere il preambolo “Questa
soluzione (…) mentre appare rispettosa del principio costituzionale di
parità e della volontà dei soggetti interessati, non comporta alcun problema
di ordine pratico”. Interessante perché la preoccupazione che traspare è
quella di disturbare il meno possibile il sistema sul piano pratico,
preoccupazione che sarà una costante, più o meno esplicita, anche di altri
progetti successivi. Da rilevare inoltre che la riforma veniva iscritta solo
nell’ambito dei diritti della donna e non anche dei figli, che non
s’ipotizzava nemmeno il possibile disaccordo dei coniugi, né si teneva conto
degli effetti del divorzio, introdotto ben nove anni prima.
A che tipo di effetti si riferisce?
A quelli sperimentati già prima del 1970 dalle vedove,
per soffermarci solo ai casi di matrimonio escludendo le situazioni di
convivenza. Una vedova con figli, risposandosi, si trovava ad avere figli del
primo matrimonio con un cognome e figli del secondo matrimonio con un altro
cognome, senza che nessuno di quei cognomi corrispondesse al suo. Idem con il
divorzio. La situazione è stata sin qui sconosciuta agli uomini a causa della
patrilinearità conclamata, un riparo che verrebbe teoricamente meno per loro
con l’introduzione del cognome unico a scelta. Il disagio maggiore è comunque
dei figli, costretti a non relazionarsi ai fratelli e in più, per i nati dal
precedente matrimonio, a vivere spesso sotto un nuovo tetto in stato di
simbolica estraneità.
In questa legislatura l’onorevole
Rosy Bindi ha presentato la prima proposta parlamentare sul doppio cognome
obbligatorio, affidando al sorteggio l’ordine dei due elementi (uno solo per
ciascun genitore). Con quale esito?
Una levata di
scudi negativa e un tentativo di riabilitare ad ogni costo la formula
'scegliamo noi genitori per voi figli'. Storte le bocche in tutte le
direzioni, la proposta è divenuta comunque il testo base su cui avviare la
discussione alla Camera e al quale ciascuno potrà - anzi potrebbe - apportare
tutte le modifiche possibili, che saranno - anzi sarebbero - tante, a
giudicare dal numero delle proposte esistenti.
Perché il condizionale?
Perché siamo già agli sgoccioli di questa legislatura e, come
al solito, non se ne farà proprio nulla. Peraltro, esistono anche due
proposte al Senato: la più degna di tale nome, che tuttavia non condivido
ugualmente, è quella dell’on. Vittoria Franco, che la riprende dalla
legislatura precedente. Un solo cognome a scelta degli sposi, o anche due
attribuiti per ordine alfabetico o a scelta degli sposi e trasmissibilità ai
figli del primo cognome soltanto, salvo opzione diversa espressa dai coniugi.
Come mai questa qui non le piace?
In primo luogo perché non realizza affatto l’unità familiare,
mantenendo irrisolte le situazioni già descritte prima in relazione a
vedovanze e divorzi; in secondo luogo, perché l’opzione è tale solo a parole,
visto che di fatto la decisione finale, in caso di disaccordo, spetterebbe
all’uomo; in terzo luogo perché renderebbe legge l’arbitrio in base al quale
i genitori possono decidere di amputare il figlio del naturale collegamento
con l’altro genitore e con la famiglia di questi (come già fa lo Stato per
adesso).
Dunque apprezza solo quella di Rosy
Bindi?
È la più simile alla mia e la considero la più
innovativa. Manifesto però una riserva sulle modalità della cosiddetta
'trasmissione'. Il sorteggio relativo all’ordine dei cognomi, formula più
avanzata delle altre, rispecchierebbe l’assoluta parità dei coniugi nel loro
rapporto coi figli, si crede. Ed è qui che si annida l’errore, perché una
parità effettiva tra i genitori nel momento in cui si effettua il
riconoscimento di un figlio, cioè poco dopo la nascita, nella vita reale non
c’è.
Non meravigliamoci: rompere i condizionamenti esistenti è difficile per
chiunque, sbriciolare poi le mura di cinta della cittadella parlamentare
patriarcale, tagliando anche i ponti levatoi, lo è sicuramente anche di più.
Io stessa nelle prime formulazioni del mio progetto prevedevo una soluzione
meno radicale di quella cui sono pervenuta ultimamente, anche sotto la spinta
dell’incalzare dei femminicidi e dunque a seguito di un’analisi più
approfondita dei messaggi culturali latenti. In un mio articolo dal
titolo 'Se la lezione freudiana è servita portiamo ora allo scoperto il
rimosso', ho evidenziato come rimanga ancora una volta occultato dagli
ordini alfabetici e dai sorteggi che la madre è il primo oggetto d’amore del
bambino, la persona che egli inizia a conoscere con le capacità sensoriali
che possiede. Se l’attribuzione del cognome deriva da una relazione di
filiazione, allora la prima relazione in assoluto è quella del figlio e della
figlia con la madre e non con il padre. Nove mesi di gestazione e un parto,
seguiti il più delle volte da alcuni mesi di allattamento, non costituiscono
nella vita reale un niente, un qualcosa da cancellare consegnandolo alla
rimozione collettiva. Il primo cognome che il figlio ha tutto il diritto di
acquisire è dunque il cognome materno, seguito da quello paterno. Solo nei
casi di adozione i genitori partono effettivamente alla pari nella
costruzione di un rapporto col figlio, ma nella filiazione biologica no.
Quando venne annunciato mesi fa il
DPR ora approvato, ci fu un grande clamore sulla stampa in relazione al
cognome del patrigno. Di che si tratta e che cosa ne pensa?
Sì, infatti, titoloni a tutto
spiano: ora le madri potranno fare aggiungere al cognome dei figli quello del
patrigno! Ma che bellezza, che grande trovata! Il punto 2 del Decreto in
questione recita: “Le donne divorziate o vedove potranno aggiungere il
cognome del nuovo marito ai propri figli”. Affermare che vi fu un
boato d’incredulità e di proteste nel gruppo è dir poco. Scrissi e non fui la
sola al Presidente della Repubblica esprimendo la mia indignazione, ma mi fu
detto da altri, a torto o a ragione, che tale prassi era in uso da prima e
che dunque si sarebbe trattato di una semplice riconferma e nient’altro. Come
che stiano le cose, il punto 2 costituisce una gravissima stortura, che
potrebbe e dovrebbe essere evitata, tenuto conto sia che la sentenza del TAR
della Liguria n. 57 del 13.01.2012 ha dato forza legale alla possibilità di
aggiungere al proprio cognome anche quello di un estraneo, sia che parimenti
di un estraneo sarebbe per un bambino il cognome del patrigno.
Basterebbe
infatti che la madre facesse aggiungere al cognome dei figli di primo e
secondo matrimonio il proprio, per creare un legame oggettivo tra sé e tutti
i suoi figli. Quanto al nuovo marito… beh, visto che il cambio di cognome può
essere chiesto anche dagli adulti, toccherebbe esattamente a lui far
aggiungere al suo il cognome della moglie, già presente nel cognome dei
piccoli, per attuare un collegamento familiare pieno, senza che venga
manipolata a proprio piacimento l’identità reale dei bambini.
Nel suo Gruppo è apparso un
commento in cui si invita letteralmente a intasare con le richieste di cambio
cognome le Prefetture d’Italia: “e vediamo se alla fine non nascerà una
vera e propria legge sul cognome materno!”, ha concluso quasi con sfida
un’iscritta. Lei ha dichiarato di condividerlo: perché?
Certo, l’ho appoggiato dandogli il giusto rilievo e
integrandolo con un “Forza donne, giochiamoci questa partita!”. Lucia
Faleri è una militante agguerrita: ha già utilizzato questa via - venti mesi
di lungaggini burocratiche, che la presenza di una legge a monte avrebbe
evitate a entrambi i coniugi - e suo figlio ora porta anche il suo cognome.
Quanto a me, quest’anno ho lanciato sul blog e su FB un Manifesto,
suggerendo di fare dell’8 Marzo la Giornata del Cognome Materno in Italia e
invitando le donne a subissare di domande quelle Prefetture, che fino ad oggi
sono state un tramite e che ora diventano invece titolari del procedimento.
Quella stessa richiesta, che avrebbe avuto poco successo al tempo della
nascita della mia prima figlia e che sarebbe rimasta confinata nel privato,
diventa oggi - mutati i tempi - un’arma utilissima.
In che senso sarebbe un’arma e per
cosa?
Non soltanto allargando il fronte di coloro che portano
già il cognome materno, s’indurrà il Parlamento a svegliarsi dal suo
colpevole letargo, ma diffondere l’uso del doppio cognome servirà a ridurre
le simpatie per quelle proposte conservatrici che, in nome di una malintesa
libertà, si appigliano al cognome unico a scelta o a formule miste, ben
sapendo che continuerà a prevalere nel costume il cognome paterno soltanto.
Non ci serve una legge che nasconda l’uno o l’altro dei genitori e non ci
serve una legge che prevarichi, attribuendo a loro e non ai figli il diritto
di stabilire, alla maggiore età, se tenersi entrambi i cognomi o se optare
per uno solo di essi, a propria scelta. Il patriarcato non colpisce
solo le donne ma tutti, sia pure con modalità differenti; va individuato e va
stroncato in pieno, sotto qualsiasi spoglia si presenti. Non può esistere il
possesso delle persone: nemmeno quello di padri e madri su figli e figlie.
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16.05.2012
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©
Marta Ajò
L’Indro
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Il cognome patrilineare, in Italia come in ogni Paese in cui vige, è il burqa culturale delle donne (©Iole Natoli).
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