All’attenzione di chi è avvezzo a prestarne
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di Iole Natoli
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Con lo scioglimento
delle Camere, il poco gradito DdL 1628 è caduto. La Proposta “Disposizioni
sul Nome della persona e sul Cognome dei coniugi e dei figli”, ispirata alle
sentenze della CEDU e della CONSULTA e a cui qui si rimanda (link), potrebbe
invece riscuotere consensi.
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“Il cognome materno? Ma che bisogno c’è di fare una legge, a me sta bene così”, scriveva un tale poco tempo addietro intervenendo in un gruppo di FB, dopo avere rimesso in sesto i suoi occhi che nel leggere di una proposta di legge al Senato erano andati a convergergli sul naso. Gli sta bene? Ma che strano! I suoi figli, se per caso ne ha, portano il suo. “Eh? Cosa? Ma spiegatemi un po’: un figlio dovrebbe prendere due cognomi, suo figlio quattro, ognuno dovrebbe portarsi dietro quello di nonne e bisnonne, solo per dare visibilità alle madri?”, obietta deridendo un’altra voce. Di un uomo? No, di una donna. Dobbiamo dircelo con franchezza, purtroppo. Non tutte le donne hanno avuto fin qui consapevolezza di ciò che abbia significato e significhi per loro stesse e per i loro figli la soppressione del cognome materno. Rassicuriamo la signora in questione invitandola a leggere i testi delle proposte in cui si spiega come, quando e perché i cognomi non saranno mai più di due. Basterà? Non è detto, perché circolano intere nebulose di asserzioni abitualmente infondate. «Ma che mi dici mai! La cognata della cugina della signora che abita al piano di sopra cinque anni fa ha dato anche il suo cognome a suo figlio, proprio alla nascita, veh!». E ancora: «Si può fare di già, non c’è nessun bisogno di una legge!». Il bisogno invece c’è ed è anche necessario ed urgente darvi risposta in maniera appropriata. Il bisogno lo avvertono quelle donne che, diversamente dalla signora citata, si sentono subito dopo il parto bruscamente estromesse, a forza di legge, da quel legame intimo e naturale che le aveva unite al proprio figlio, se il padre del pargoletto è in disaccordo. Lo avvertono quelle donne che, nell’ambito di un’unione ormai scissa, vivono con un figlio che non porta il loro cognome, sentendosi obbligate a dimostrare, in svariate occasioni, che quel bambino non è per loro un estraneo. Lo avvertono i bambini che si trovano a vivere in un nucleo familiare in cui la madre ha un nuovo marito o compagno e che non hanno un cognome che li leghi agli adulti di casa; |
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lo avvertono ancor più fortemente quei bimbi che vivono
in una nuova famiglia in cui son nati dalla stessa madre altri figli, a cui
non sono collegati da niente.
In tutti questi casi, i bambini soffrono quotidianamente
per una discriminazione che li esclude (sempre
per via di madre e non di padre), grazie a quella nota tradizione
testarda, la cui tenacia a scomparire dalle leggi ha condotto la retrograda
Italia a
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ricevere nel 2014
una condanna dalla CEDU, per
violazione dei diritti umani.
L’impossibilità di attribuire il cognome materno alla nascita - com’è stato in assoluto sino alla sentenza della Consulta 286/2016 - si configura infatti come una discriminazione manifesta nei confronti della donna, una lesione che la Corte Costituzionale italiana ha tentato di sanare in modo contradditoriamente parziale con la sentenza appena citata. Stabilendo infatti che il cognome materno possa venire attribuito alla nascita solo in presenza di accordo tra i genitori, la Corte Costituzionale ha posto il volere della donna alle dipendenze del volere dell’uomo nell’ambito della gestione della vita familiare, contraddicendo così quel principio di parità tra le persone e in particolare tra i coniugi, sancito dall’art. 29 della Costituzione.
Ma accantoniamo gli
artifizi delle leggi e osserviamo quanto possa incidere nello sviluppo dei
figli la patrilinarità del cognome.
I bambini apprendono
da noi il modo in cui stabilire le relazioni tra le persone. La prima cosa
che scoprono, non appena riescono a dare un senso alle parole, è che loro non
hanno il cognome della mamma ma solamente quello del papà. È con quello che
si presentano a scuola, è con quello che vengono conosciuti, è con quello che
sono obbligati a strutturare la propria identità. La mamma esiste, però conta
poco ed infatti nel loro cognome non c’è. La donna serve, ma non è poi
necessaria e non possiede valore alcuno in
sé dato che la sua identità è sopprimibile.
Questa è la prima traccia di un percorso di pesante discriminazione tra i sessi, che se lasciato a se stesso darà frutti che non saranno di sana convivenza sociale.
Dal 1979 sono stati
presentati in Parlamento numerosi progetti di legge concernenti
l’attribuzione del cognome materno ai figli. Dall’esito del ricorso
Cusan-Fazzo alla Corte EDU nel 2014, era derivato all’Italia l’obbligo di
approntare IN TEMPI BREVI una legislazione differente, che eliminasse la
discriminazione rilevata nei confronti della donna. L’Italia, malgrado ciò,
non è stata capace di discutere e approvare entro la XVII Legislatura l’unico
progetto di legge che avesse avuto almeno l’approvazione di una delle Camere.
Oggi siamo alla
vigilia delle elezioni. C’è il rischio che il maschilismo così profondamente
radicato nella società italiana riesca nuovamente a sottrarsi, nell’arco
della nuova Legislatura, all’obbligo imposto da Strasburgo.
Le donne hanno però
cominciato a svegliarsi e sono sempre meno numerose quelle che accettano il
costume corrente. Meno che mai lo accettano le madri separate o divorziate
che vivono con un figlio che non porta anche il loro cognome e si scontrano
con un NO dell’ex partner, che rende vana la loro richiesta di aggiunta, di
cui si sono sin qui occupati i Prefetti.
Occorre una legge e una legge nuova, che normi
appropriatamente anche gli aspetti non affrontati nelle proposte parlamentari
precedenti.
Occorre questo progetto, o uno che parecchio gli assomigli, occorre che i partiti si assumano la responsabilità di occuparsene, occorre muoversi adesso e non quando i giochi saranno già fatti; occorre parlarne pubblicamente a voce alta ed è per questo che abbiamo bisogno di voi. |
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22-24.01.2018
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© Iole Natoli
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Il cognome patrilineare, in Italia come in ogni Paese in cui vige, è il burqa culturale delle donne (©Iole Natoli).
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