La
persistenza di una Menzogna sociale
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di
Iole Natoli
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Ho letto con notevole ritardo sulla sua pubblicazione un editoriale del Presidente dell’ISP Maurizio Quilici, dal titolo “Il
tramonto del cognome paterno”, in cui vengo tra l’altro citata in merito alla
ridotta libertà dei figli rispetto a quella concessa ai genitori nel DdL
approvato alla Camera e defunto dopo la sua permanenza al Senato, per
conclusione della legislatura passata. Su tale punto sono sempre della stessa
opinione.
Non solo considero esorbitante il potere concesso ai genitori rispetto a quello accordato ai figli, unici titolari del loro cognome, ma considero una visione patriarcale solo parzialmente modernizzata quella che pone l’accento unicamente sulla libertà dei genitori di scegliere se dare il doppio cognome, o solo quello del padre, o solo quello della madre, e non considera l’interesse primario del figlio di relazionarsi con entrambi i genitori e coi due rami del suo parentado.
Nel mio ultimo lavoro, affidato a una petizione articolata come una proposta di legge, ho posto nel comma 1 dell’Art. 5 come regola di
base il doppio cognome e al comma 3
dello stesso articolo come possibilità alternativa la scelta di un solo
cognome dell’uno o dell’altro genitore.
Cosa cambia rispetto alla “libertà della scelta” della
proposta legislativa citata? Apparentemente nulla. Nella realtà, nella
proposta da me formulata c’è un invito al rispetto del figlio e alla tutela
della sua identità. Porre come regola di base il doppio cognome, pur
prevedendo la possibilità del cognome unico in linea col diritto dei singoli
di imprimere l’indirizzo voluto alla vita familiare, riaffermato dalla
sentenza CEDU 7/2014, è riconoscere
la centralità del soggetto minore e contenere
l’incidenza dell’impulso autoritario che può indurre a optare per un solo cognome, impoverendo le relazioni identitarie del figlio anche in assenza di una
qualche ragione obiettiva.
Vorrei però soffermarmi principalmente su ciò che io chiamo prossimità neonatale, ovvero sulla relazione esclusiva del figlio con la
madre al momento della nascita (tempo in cui avviene la registrazione
anagrafica), e sulla sorte riservata in seno alla 2ª Commissione Giustizia
della Camera alla proposta Nicchi, che propugnava l’anteposizione costante del
materno nell’ordine dei cognomi dei figli. Un resoconto delle resistenze che
vennero opposte lo troviamo nell’articolo citato. Si attribuiva in sostanza
alla proposta la volontà di stabilire una superiorità femminile nei confronti
degli uomini, accusa che di recente è stata lanciata anche a me al di fuori di aule
parlamentari da qualche donna, che individuerebbe tale presunto intento
discriminatorio perfino in una norma
che l’anteposizione del cognome materno la postula senza rendere obbligatoria
la sequenza.
A simili esternazioni irriflesse avrei una
prima obiezione da muovere. Se la gravidanza e il parto sono vissute come “superiorità”
della donna sull’uomo (o come “inferiorità” dell’uomo rispetto alla donna) il
problema non sta nell’anteposizione del cognome, ovvero nella simbolizzazione
di quegli eventi e della relazione che ne deriva, ma nella differenza in sé considerata. Se ne deduce che per non
essere superiori agli uomini le donne non dovrebbero mai rendersi gravide e
partorire, o che gli uomini dovrebbero mutare drasticamente la loro natura
per poter fare a loro volta ciò che viene vissuto come “superiorità” inaccettabile
di un ramo della specie sull’altro.
Voler negare il maggiore contributo della donna nella
formazione e nella nascita di un figlio è risibile. Non è la sua espressione
simbolica ma il fatto che rende non aggirabile la diversità. E allora
o si impara a gestire la realtà in modo appropriato, o l’occultamento sia del
fatto e sia del possibile disagio vissuto dai padri continueranno a produrre
effetti negativi molteplici, primo dei quali sarà il permanere di un’invidia sotterranea e repressa di
alcuni uomini nei confronti delle donne, con tutta l’animosità che ne
consegue. Le differenze si elaborano per superare le eventuali difficoltà
psicologiche che possono comportare e non si celano con procedure ingannevoli se non si vuole che producano danni.
Nel comma 2 dell’articolo 5 della proposta/petizione
citata ho scritto testualmente:
“In conseguenza del tempo in cui viene effettuata la registrazione anagrafica legata all’evento della nascita, l’ordine dei cognomi è attribuito per prossimità neonatale. Prevede pertanto in prima posizione il materno, salvo diversa indicazione concorde presentata all'Ufficiale di Stato civile da entrambi i genitori. Ove la richiesta di ordine diverso da quello derivante dalla prossimità neonatale sia presentata da un genitore soltanto, l'Ufficiale di Stato civile attribuirà i due cognomi nell’ordine risultante dal sorteggio”. Il perché del sorteggio e non dell’ordine alfabetico è spiegato nelle motivazioni che accompagnano l’articolo.
Cosa comporterebbe l’approvazione
del comma 2 su riportato? Sarebbe una norma rigida, come quella proposta
allora dall’on. Marisa Nicchi, o si tratterebbe di un’indicazione
di massima che lascia ai genitori ogni possibile scelta? Se già la
dichiarazione discorde di un solo genitore conduce a un sorteggio e dunque al
50% delle possibilità di “vittoria”, dove starebbe la disparità insita nel
comma 2 che ugualmente alcune donne lamentano?
La causa di questo rifiuto va
indagata. Cosa spinge queste donne di parere contrario a svalutare o
addirittura negare l’esistenza di una prossimità
neonatale? Temono
forse che il riconoscimento simbolico di una REALTÀ possa indurre gli uomini
a sentirsi meno coinvolti nella cura dei figli, a ricacciarle nell’esclusività
dell’allevamento infantile, a farne ancora le succubi di un regime familiare
che le estrometta da vita sociale e lavoro? Barattano il silenzio sulla verità
di gestazioni e di parti, sull’importanza
di quel legame primario, in cambio di una qualche libertà? O forse
pensano seriamente che la VERITÀ necessiti di oscuramento perché
"lesiva" nei confronti degli uomini? Il corpo generativo delle
donne sarebbe un'intrinseca offesa da occultare tramite un burqa culturale nostrano?
Considerano quelle donne i loro uomini come esseri inadatti a sopravvivere
alla presa di coscienza del reale, cioè del fatto che il figlio è stato per
nove mesi in relazione costante e
unica con la madre e non con il padre, che è stato espulso dal corpo
della donna e non da quello dell’uomo, che alla nascita è prossimo solo a lei e non a lui? È per questo,
per tutelare dalla verità una sorta di bipede incapace, che imbastiscono con convinzione
la pantomima dell'uguaglianza apparente, di una “parità” istituita solo dopo
il nascondimento iniziale, erogando al genere maschile una protezione basata
sulla falsità che risulta ben più offensiva della diversità naturale che si
vorrebbe ad ogni costo nascondere?
Questo timore di una catastrofe che travolga la psiche maschile è superficiale, autoritaristico, rischioso. Parte dal presupposto che il divario non sia in nessun modo colmabile nel tempo attraverso le cure e le attenzioni che un uomo può voler dare al proprio figlio per scelta, per desiderio di fondare la relazione con lui sugli affetti e non per mero obbligo sociale. Parte da quel presupposto insondato e vi rimane.
La negazione della
relazione iniziale madre-figlio è portatrice anche di altre conseguenze;
probabilmente non vi si è riflettuto abbastanza. Conduce dritto all'utero in affitto. Non è un caso se a questa
pratica "tecnologica" (parola magica che spoglia del disumano ogni
atto eversivo) si strizza l’occhio tanto facilmente dovunque. Non è un caso
se con tanta disinvoltura in Italia la si vorrebbe "regolare" - il che significa legalizzare - né è
un caso se le proposte in merito sono tra le più violente possibili sul piano
della degradazione femminile: ti pago, il bimbo tu me lo fai ma poi sparisci,
senza possibilità di partecipazione o ricorso. Non è un caso se a voler sfruttare e a sostenere una così devastante alienazione ci sono anche donne,
che alla scomparsa legalizzata di sé sono state "addestrate" da
secoli, mediante la soppressione del loro stesso cognome sino alla riforma
del 1975, se coniugate, e mediante l’esclusione programmatica della loro presenza dal cognome dei figli, tuttora non cancellata dalla parziale modifica
introdotta per le attribuzioni alla nascita dalla sentenza 286/2016 della Consulta, che, in contrasto con l'art. 29 della nostra Carta e con l'art. 14 della CEDU - paradossalmente, per essere un atto della Corte Costituzionale - subordina la libertà delle madri alla volontà senza appello dei padri.
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21.02.2018
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Il cognome patrilineare, in Italia come in ogni Paese in cui vige, è il burqa culturale delle donne (©Iole Natoli).
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