RICHIESTA di audizione in Commissione La soppressione del cognome materno radice prima della violenza di genere |
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di Iole Natoli |
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Gent.ma Senatrice Giulia Bongiorno, quando ho appreso della sua nomina a Presidente della Commissione Giustizia mi sono sentita sollevata, perché il tema della Petizione che meditavo di inviare ai due rami del Parlamento - e che adesso è già stata annunciata in Senato col n. 189 e assegnata alla 2ª Commissione - riguardava e riguarda le donne. Non solo le donne, in verità. Vede, Senatrice, fin da quando ho cominciato a lavorare sul Cognome materno ai figli sono stata profondamente convinta che la soppressione della visibilità femminile dal cognome della prole (che è generata in primo luogo dalla donna) non fosse una questione che riguardasse la singola coppia genitoriale. Ho pensato che rispondesse invece a uno schema generale preciso, attraverso cui la società patriarcale veicolava un messaggio di sopprimibilità della donna nel nostro sistema culturale e anche giuridico. Ho iniziato a occuparmi pubblicamente del cognome della madre nel
cognome dei figli nel giugno del 1979, con il mio primo scritto sull’argomento che precede temporalmente la proposta
parlamentare per un cognome unico maschile o femminile dell’on. Magnani Noya,
prima proposta legislativa sul tema nella nostra Repubblica, presentata il 30 ottobre di quell’anno. Non mi sarei mai sognata di prevedere esclusivamente un cognome unico a scelta, perché questo non avrebbe centrato l’obiettivo di DEMOLIRE lo schema che sin dalla loro nascita ha indotto gli uomini a considerare sopprimibili le donne e ha obbligato le donne a sentirsi rappresentate esclusivamente da una figura maschile, la sola che avesse il potere di renderle accettate e dunque riconoscibili nella società come persone dotate di diritti. Se mi era perfettamente chiaro lo schema di sopraffazione legalizzata delle donne posto in atto dal sistema sociale, non mi era altrettanto evidente che questo potesse agire anche sulla mente dei giudici. Così, con somma ingenuità - provenivo da studi psicosociali e antropologici e non da una formazione giuridica - avviavo nel 1980 la prima causa civile italiana contro lo Stato per l’attribuzione (tardiva) anche del mio cognome alle mie due figlie, convinta di spianare la strada al mio progetto sul doppio cognome, che avevo già cominciato a inviare a partiti e parlamentari di ambo i sessi. La sentenza del Tribunale di Palermo arrestava l’itinerario che mi ero prefissata e alcuni commenti apparsi
sulla stampa, tra cui quello del giurista Giovani Conso, mi rendevano
evidente come ci fosse molto lavoro da fare, prima che una riforma di tal
genere potesse essere considerata ipotizzabile. Cosa trasmetteva all’epoca in cui io iniziavo il mio percorso, ovvero nel 1979, quella
particolare soppressione oggi
dichiarata interamente illegittima dalla Corte Costituzionale? Diverse
suggestioni più o meno manifeste. Eccone alcune. Non sono poche le scusanti, infatti, con cui il sistema socio-giuridico
si è adoprato per aggirare o ridurre al minimo il peso di violenze e di
delitti che nei tempi andati non venivano ancora classificati come femminicidi. L’uomo (marito /
fidanzato / innamorato) che infliggeva violenze varie o uccideva la donna: Il punto era allora e ancora oggi è: se la donna è sopprimibile simbolicamente e concettualmente, allora può diventarlo anche nella realtà. È un pensiero inconscio ma consideriamo QUANDO viene (ancora troppo presto per poter dire “veniva”) instillato nei soggetti umani. Accade a partire dalla nascita, ovvero in un momento in cui nessuno schema logico cosciente, tale da svelare e contrastare quel messaggio subliminale, si è ancora formato nei bambini. A questo input se ne aggiungono altri di cui la nostra società maschilista purtroppo è intrisa e che difficilmente è possibile contenere. Ne deriva una combinazione micidiale. La sentenza 131/2022 della Corte costituzionale ha sancito l’ILLEGITTIMITÀ ab origine della patrilinearità del cognome e
reso obbligatoria l’attribuzione ai figli del cognome di entrambi i genitori,
a meno che gli stessi non abbiano concordemente optato per quello di uno solo
di essi. Nel tempo, Senatrice, ho inviato in Parlamento diverse petizioni. La prima, del 2013, prevedeva solo il
doppio cognome obbligatorio. Ne ho modificato l’impianto nel 2014 dopo la
sentenza di Strasburgo, che sanciva il diritto dei genitori di voler
attribuire ai figli solamente il cognome materno (quello dunque di un solo
genitore). Ne ho presentato una più approfondita nel 2018. Si potrebbe pensare che quest’ultima mia petizione non fosse in realtà
necessaria, perché c’era da aspettarsi che le nuove proposte legislative
presentate a Camera e Senato sarebbero state adeguate in modo congruo alla
sentenza della Consulta citata. Da quel che mi è possibile constatare però -
limitatamente alle proposte già assegnate e di cui dunque il testo è
agevolmente consultabile sul sito parlamentare -, i Ddl apparsi in questa
legislatura ricalcano le stesse orme di quelli della legislatura
precedente, senza che le indicazioni della Corte Costituzionale siano state
assimilate al punto da eliminare ogni pericolosa traccia di omaggio alla
tradizione patriarcale, in primo
luogo nel linguaggio adottato. E il linguaggio non è solo forma; è
una forma che si rende sostanza. Un linguaggio normativo che relega all’ultimo posto tra le scelte l’assunzione del cognome materno sta confermando lo schema precedente pur nella novità del ventaglio di possibilità considerate. Un linguaggio che lungi dall’utilizzare le formule asettiche della sentenza 131/2022 «dà precedenza enunciativa, contraria perfino all’ordine alfabetico, al cognome del padre rispetto a quello della madre o di entrambi» sta operando un «raccordo ideologico con la tradizione precedente il cui fondamento è stato dichiarato DEFINITIVAMENTE illegittimo» dalla Corte. Un linguaggio che “salva la priorità” della discendenza dal padre rispetto alla discendenza dalla madre tradisce la funzione profonda della riforma necessaria, che è quella di eliminare ogni rapporto di forza che neghi la realtà della natura. La realtà,
Senatrice, è che i figli sono generati in misura maggiore dalla donna e non
dall’uomo. Se si accetta di considerare una parità nella relazione tra i
genitori e i figli è perché dopo la nascita che consegue a una gravidanza e a
un parto (che sono esclusivamente
femminili e spostano verso la madre l’entità del contributo alla generazione
dei figli) i genitori si assumono pari responsabilità rispetto ai figli e non
perché sia lecito considerare innanzitutto figli-dei-padri i figli messi al
mondo dalla donna.
E allora, Senatrice Bongiorno, La prego di voler considerare la possibilità che io sia convocata in occasione di una delle audizioni che sicuramente saranno da Lei disposte al fine di pervenire con tutti gli strumenti necessari a un testo unificato. Glielo chiedo perché nella mia Petizione che è stata annunciata di recente in Senato col n. 189 ho precisato in una lunga premessa le ragioni che hanno determinato la formulazione dei singoli articoli, ma non ho potuto – per evitare un eccesso di lunghezza che avrebbe forse scoraggiato un’attenta lettura del testo – includere quelle stesse considerazioni analitiche di natura prettamente sociale che ho invece esposto a Lei nella prima parte di questa Lettera. Riporto un brano di un mio breve saggio del 1988: « Non è da escludere che quel tipo d’aggressività maschile delinquenziale, giunta a concretizzarsi di frequente in episodi di violenza sessuale individuale o di gruppo, non abbia, tra i fattori che sono alla sua origine, anche l’estraneità della donna ai processi di formazione dell’identità maschile». Oggi sono ancor più convinta di questo nesso malefico, che solo una riforma che non resti astrattamente sulla carta ma penetri massivamente nelle coscienze potrà seriamente contribuire a rimuovere. Concludevo quel brano scrivendo: «Può darsi, indubbiamente, che tale intuizione sia infondata; ma se non lo fosse, sarebbe follia non cercare di rimuovere un fattore, che di formale avrebbe, in tal caso, ben poco». Proprio così, Senatrice Bongiorno. Lei, che di violenza contro le donne si è occupata attivamente e con convinzione, mi ascolti. Sarebbe follia non provarci. |
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21 Dicembre 2022
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