Grazie
al cognome si fa parte di una famiglia e non di un’altra. Mediante il nome,
di cui fa parte il cognome, si fonda l’identità della persona. Allo stato
attuale, l’identità dei figli e delle figlie passa da un percorso obbligato:
il cognome paterno e solo quello, la famiglia paterna e quella soltanto.
Ciò
benché sia proprio la donna il soggetto maggiormente impegnato nella
generazione della prole, non solo attraverso la trasmissione del DNA, che
trova analoga trasmissione da parte dell’uomo, ma mediante una gravidanza e
un parto che la diversificano radicalmente dal genitore di sesso maschile. Un
“benché” cui potrebbe essere sostituita la dizione “proprio per questo”, dato
che l’antichissima invidia della generatività femminile è la radice
dell’ordinamento patriarcale, che ha sottratto alla donna dignità e diritti,
facendone uno strumento della genealogia maschile privo d’indipendenza e
volontà.
Per
non perdersi nelle nebbie del passato, basterà ricordare qualche data. Il 25
giugno 1865 viene
promulgato il Codice civile del Regno d’Italia che assoggetta la donna coniugata all’autorizzazione maritale
dell’uomo «capo della famiglia» dichiarandone con ciò l’incapacità giuridica
su tutti i fronti.
Occorrerà arrivare al 1919,
affinché le donne ottengano per legge di essere abilitate all'esercizio di
"tutte le professioni ed a coprire tutti gli impieghi pubblici”, pur
rimanendo ancora escluse dagli impieghi giurisdizionali e dall'esercizio di
diritti e di potestà politiche “o che attengono alla difesa militare dello
Stato"; bisognerà ancora attendere il 1946 per l’estensione del diritto
di voto e il 1975 per un primo tentativo di parificazione della donna
all'interno della famiglia.
Chi ancora oggi insiste col
voler attribuire alla questione “cognome dei figli” il valore di un astratto
capriccio, di una colpevole “distrazione” da problemi primari quali ad
esempio il lavoro, mostra di non conoscere - o di non voler riconoscere - il
retroterra culturale da cui essa si genera. La patrilinearità del cognome
costituisce uno strumento permanente e massivo di distorsione sociale attivo
ancora oggi, in quanto condiziona la percezione che gli uomini hanno delle
donne e talora le donne stesse di sé. La prassi legale che impedisce alla
donna di esser fonte dell’identità sociale dei suoi figli viene appresa dalle
giovani generazioni per quello che di fatto essa è: una dichiarazione
implicita d’inferiorità, di capacità giuridica minore, di minore dignità
della donna. Attraverso la patrilinearità obbligatoria si insegna a maschi e
femmine, fin dalla più tenera infanzia, che il mezzo per essere riconosciuti
nella società è la figura paterna e non la materna, che solo mediante il
cognome del padre (e dunque attraverso il riferimento a una figura maschile)
si struttura e trova apprezzamento la loro identità, in tutti gli ambiti
sociali nei quali la loro vita si struttura e si evolve.
Questa comunicazione
silente e distorsiva è una colpa sociale da rimuovere. Lo hanno compreso le e
i parlamentari che a datare dal 1979 hanno proposto leggi di modifica
relative all’acquisizione del cognome; lo hanno sentito e compreso coloro che
hanno voluto promuovere azioni giudiziarie per attaccare questa consuetudine
discriminante e dannosa.
Se la prima azione giudiziaria
di tal natura iniziò in Italia nel 1980 a Palermo, per concludersi nel 1982,
è a un’altra causa civile ben più lunga, che trova accanto alla donna anche
il suo coniuge, che dobbiamo la decisione del Parlamento italiano di
discutere le proposte di legge in materia. Non a caso il DDL approvato alla
Camera e giunto in Senato con il n.1628 ha ricevuto il titolo “Disposizioni
in materia di attribuzione del cognome ai figli, in esecuzione della sentenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo 7 gennaio 2014”. Senza il
dispositivo di condanna conseguente al caso Cusan e Fazzo, possiamo avere
quasi assoluta certezza che nessuna proposta di legge - pessima, buona, o
parzialmente imperfetta - sarebbe oggi in attesa di discussione e
approvazione da parte dell’altro ramo del Parlamento.
Per quanto questo sia già un risultato di portata storica, è
necessario rilevare talune pecche non lievi che il testo fin qui approvato
contiene. Esse attengono principalmente:
- al ricorso all’ordine alfabetico in luogo del rispetto del
principio di prossimità neonatale in presenza del cosiddetto doppio cognome;
- all’incompletezza o nebulosità di alcune norme, ovvero
all’assenza di un dettato ben chiaro che obblighi ciascun genitore ad
attribuire a ogni figlio o figlia lo stesso cognome attribuito ad altra prole
derivante da differenti unioni,
coniugali o meno, con cui si rischia di legittimare un codice di
estraneità tra filiazioni derivate da un solo genitore comune;
- alla limitata possibilità di modifica da parte di figli e
figlie maggiorenni del o dei cognomi ricevuti;
- all’esclusione della modifica del 143-bis operata successivamente
al 19 giugno 2014, come da Resoconto della seduta n. 265 di Giovedì 3 luglio 2014 in cui leggiamo: «Michela
MARZANO (PD), relatore, chiarisce che la nuova proposta di testo unificato presenta
talune modificazioni rispetto alla proposta di testo unificato precedentemente
presentata ed illustrata. La prima concerne l’eliminazione dell’articolo 1 che
riguardava il cognome dei coniugi, in quanto si tratta di una materia che
richiederebbe un autonomo esame ed approfondimento. Si è quindi delimitato l’oggetto
dell’esame al solo cognome dei figli».
Forse è quest’ultima la manchevolezza riscontrata che
maggiormente stupisce e offende le donne. Certamente la brusca rimozione di
una norma per la quale la donna coniugata è stata collegata ai suoi figli
mediante l’aggiunzione del cognome maritale, identico al cognome paterno di
costoro, avrebbe creato un qualche vulnus
nella situazione di quelle donne che non avrebbero potuto godere
retroattivamente delle regole che questa legge introduce. Sarebbe bastato
però aggiungere un articolo relativo al permanere della situazione già in
atto per le donne coniugate prima dell’entrata in vigore della legge, salvo
una loro espressa richiesta di modifica e adeguamento alle nuove norme, per
risolvere onorevolmente e una volta per tutte il problema, eliminando tale indebita traccia patriarcale che
questo Disegno di legge accoglie in sé.
Si è scelto, invece, di mantenere in vita il 143-bis, ovvero
una norma che viola a sua volta e in identico modo il combinato degli artt. 8
e 14 della CEDU, quegli stessi per i quali l’Italia è stata condannata con la
Sentenza di Strasburgo del 7 gennaio 2014.
L’art. 8, infatti, consente a uno Stato di intervenire nella
vita privata e familiare dei suoi cittadini solo mediante una legge che «costituisca una misura che, in una società democratica, sia necessaria alla
sicurezza nazionale, alla sicurezza pubblica, al benessere economico del
paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione delle infrazioni penali,
alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e
delle libertà altrui».
Nessuno potrebbe ragionevolmente
sostenere che l’art.143-bis adempia ad almeno una sola di queste funzioni.
Quanto all’articolo
14, che enuncia il divieto di discriminazione, questo recita che “il godimento dei diritti e
delle libertà riconosciute» nella CEDU «deve essere assicurato senza distinzione alcuna fondata
espressamente sul sesso, la razza, il colore» o altre particolari
situazioni.
Il 143-bis italiano viola manifestamente
tale articolo, in quanto istituisce l’obbligo di aggiungere il cognome
coniugale solo per la donna e non bilateralmente o quale scelta dei coniugi.
Non basta. La Corte di Strasburgo nelle sue
conclusioni ha rilevato come «una
differenza di trattamento nell’esercizio d’un diritto enunciato dalla
Convenzione non deve solamente perseguire uno scopo legittimo», quale quello
di garantire l’unità familiare o un altro aspetto di pubblico interesse; per la Corte «l’articolo 14 risulta
ugualmente violato» se non è ravvisabile
un «rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi utilizzati e il fine
preposto».
Ne consegue che nessuna pretesa unità familiare è
difendibile tramite l’unilaterale e sproporzionale obbligo imposto alle donne
di aggiungere al proprio il cognome del coniuge e che qualunque donna
coniugata può ricorrere contro questa norma apertamente incostituzionale e
far sparire l’art. 143-bis, che col DDL approvato alla Camera si è deciso di
mantenere nell’ordinamento odierno dello Stato.
Strano destino quello della popolazione italiana. C’è
voluto un attacco in piena regola da parte di una coppia di coniugi per
smantellare la patrilinearità obbligatoria, guadagnando all’Italia una
condanna, e ci vorrà una nuova sentenza di qualche tribunale supremo in
risposta all’istanza di una donna (anche di una che non abbia o non abbia
ancora avuto figli), per cancellare definitivamente quest’offensivo residuo
di un antico asservimento all’«uomo capo della famiglia» di ottocentesca e
patriarcale memoria. A meno che, nei mesi che verranno, il Senato non decida
di rimediare da sé a tale macroscopica lesione del diritto delle donne
italiane.
Milano, 20 marzo 2015 - ©Iole Natoli
(Incontro “Questioni di Educ-azioni” organizzato da Se Non Ora Quando &
Fondazione Zaninoni, presso l’Ufficio Informazione di Milano del Parlamento
Europeo)
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