Io mi occupo fin dal 1979 a vari livelli del Cognome materno
ai figli (link 1, link 2, link 3), perché l’assenza
del cognome della donna dal cognome della prole – situazione quasi
assoluta, fino a pochissimo tempo fa – lede proprio la dignità femminile,
è stata ed è ancora strumento di una sopraffazione di genere che si
esplicita a vari livelli, condiziona la rappresentanza politica agita dalle
donne, oltre ad essere contraria all’interesse personale dei figli.
Se si pensasse che oggi, dopo la sentenza della Consulta 286/2016, non sia più
così si cadrebbe in errore. Non soltanto gli effetti di un costume
sociale radicato non si cancellano brevemente nel tempo per effetto di una
sentenza, ma i mutamenti che questa ha apportato non sono tutti esattamente
apprezzabili e vediamo adesso il perché.
La Corte costituzionale ha proclamato la necessità di dar
seguito in sede di registrazione anagrafica all’aggiunta del cognome
materno IN PRESENZA DI ACCORDO dei genitori, precisando – e qui sta la
portata negativa – che per tutti gli altri casi (ovvero in caso di
disaccordo) la situazione sarebbe rimasta immutata, con il solo cognome
paterno a farla da padrone. L’accordo infatti riguarda solo la presenza del
materno, non la presenza del paterno.
I (e anche le) miopi hanno enfatizzato l’aspetto
positivo della sentenza, tralasciando un aspetto importante che ne
consegue, quello della sottomissione legalizzata della donna al volere del
partner in questa materia. In precedenza veniva attribuito solo il cognome
paterno in quanto la normativa – peraltro indiretta – dello Stato
non consentiva soluzioni diverse. Quand’anche lo avessero chiesto gli
uomini per rispetto verso le loro mogli o compagne, non ci sarebbe stato
accoglimento perché la legge NON CONSENTIVA A NESSUNO di interferire con la
propria volontà nel processo di attribuzione del cognome, né alle donne né
agli uomini.
La sentenza ha intaccato
quest’assenza paritaria di potere. Stabilendo che solo in presenza di assenso paterno il
cognome materno può essere attribuito alla nascita, ha posto la donna
sotto il dominio maschile. Se il padre è d’accordo il cognome ci sarà,
se soltanto al papà questo non piace NO, il volere della mamma non conta.
Ma cosa cambia tra la filiazione di una donna il cui partner non è
d’accordo sul cognome materno rispetto a quella di una donna in cui il
partner è consenziente? Forse che a condurre una gestazione e partorire è
la donna nel caso di consenso maschile e invece è l’uomo nel caso di
diniego del partner? La dignità dell’essere femminile, oltre che la realtà
della biologia, può dipendere dalla preferenza personale del
padre di suo figlio? C’è da chiedersi come possa essere stata proprio la
Corte costituzionale a determinare una simile enormità.
Vediamo cosa dice l’art. 29 della nostra Carta.
“Articolo 29. La Repubblica riconosce i diritti della
famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è
ordinato sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti
stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare”.
Confrontando il contenuto dell’articolo con la sentenza
suddetta, si potrebbe dedurre che sia stata la garanzia dell’unità
familiare ad aver indotto i giudici italiani a non estendere l’aggiunta
del cognome materno a tutti i casi in cui la madre ne avesse fatto
richiesta all’atto della nascita del figlio. Ma in altre parti della
sentenza gli stessi giudici si sono spesi a favore della maggiore
individuazione dell’appartenenza familiare (e dunque dell’unità della
famiglia) che la presenza del cognome materno consente, in quanto ricollega
il figlio a entrambi i rami del suo ambiente parentale naturale.
Non solo. La sentenza della Corte di Strasburgo del 2014
sul caso Cusan e Fazzo ha smentito la validità del principio secondo cui
l’unità familiare dipenderebbe dalla presenza del cognome paterno,
specificando che altri sono i parametri cui riferirsi per garantire
detta unità.
Su quale altra giustificazione poggerebbe allora la
discriminazione introdotta nel 2016 dalla Consulta? Viene scritto in
sentenza come un mantra che si vuole non interferire con l’attività
legislativa cui spetta di definire la materia con regole specifiche
generali. Strano modo di considerare incostituzionale una norma per
poi legittimarne ugualmente l’utilizzo in attesa che una legge la cancelli.
Ma le cancellazioni di quanto è incostituzionale nelle pratiche e nelle
leggi non sono materia specifica dell’azione della Consulta? Non è
proprio la Consulta chiamata a eliminarle con le sue valutazioni e
sentenze? In questo caso però si è deciso di sottomettere il verdetto pieno
sulla costituzionalità o meno di una norma all’attività in fieri di un
Parlamento, impegnato a ruminare inutilmente su una proposta che non
avrebbe poi visto la luce per fine legislatura. Questo
comportamento “prudenziale” è una costante della Corte Costituzionale
quando si tratta di cognome materno. Lo abbiamo visto in opera anche nella
sentenza sul caso Cusan e Fazzo, ribaltata dalla sentenza di Strasburgo che
ha espresso una condanna di tutte le procedure italiane che avevano
impedito l’accoglimento di quanto richiesto da quei coniugi (condanna
che pertanto si estendeva anche all’operato della Consulta in quel caso
specifico).
C’è poi da chiedersi quale sconvolgimento ci sarebbe stato
in Italia se la Corte nostrana non avesse preteso di specificare che la
modifica era da considerare limitata ai casi di consenso paterno. Cosa
sarebbe accaduto negli uffici dell’Anagrafe? Lotte, guerre, fatti di
sangue, incremento dei casi di femminicidio? Quale scenario terrificante ha
sconvolto l’obiettività di quei giudici al punto da avallare una
discriminazione che fa a pugni – questa sì – non solo con la pari
dignità dei coniugi sancita dalla nostra carta ma anche con l’art. 14 della
CEDU (operativa anche per l’Italia) e col comma 1 dell’art. 21 della Carta
dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, della quale noi facciamo
parte?
Semplicemente, ci sarebbero state due circolari
ministeriali (la 1 e la 7) del 2017, nelle quali sarebbe stato
specificato che, in caso di richiesta apposita, il cognome materno
sarebbe stato aggiunto obbligatoriamente al paterno, esattamente come è
avvenuto però col limite del consenso del padre. Tutto qua.
Ora, se perfino la Corte Costituzionale si lascia
condizionare dalla tradizione maschilista in corso, sottomettendo la donna
che conduce una gravidanza e partorisce il figlio al volere del partner che
non fa nulla di tutto questo, beh, c’è veramente ancora molta strada da
fare perché la dignità della donna sia riconosciuta in questo Paese, il
rispetto di genere diventi una realtà consolidata e le donne siano capaci
in massa di riconoscersi in altre donne e non politicamente solo in uomini,
per effetto del condizionamento instillato in loro alla nascita, tramite un
cognome che ha fatto SOLO del padre lo strumento di formazione
dell’identità personale e di riconoscibilità sociale del soggetto.
CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
Articolo 14 - Divieto di discriminazione
Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella
presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione,
in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la
lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere,
l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la
ricchezza, la nascita od ogni altra condizione.
CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL'UNIONE
EUROPEA
Articolo 21 - Non discriminazione
1. È vietata
qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul
sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le
caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni
personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura,
l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli
handicap, l'età o le tendenze sessuali.
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