Nella seconda metà del 18oo, il deputato di origine pugliese Salvatore
Morelli presentò alla Camera regia diverse proposte di legge innovative, di
cui alcune espressamente a favore delle donne. Tra queste, una che istituiva
per i figli il cognome di entrambi i genitori. Si conosce di essa solo il
titolo, non sappiamo se fosse articolata in modo da non creare una
moltiplicazione dei cognomi, o si ispirasse alla legge spagnola che allora
non prevedeva semplificazioni di sorta. Non esistono documenti al riguardo.
Di quei disegni di legge presentati fu approvato solamente quello che rendeva
le donne soggetti attendibili ai fini di una testimonianza nei processi.
Nel giugno del 1979 Iole Natoli, richiamandosi ai principi della
Costituzione italiana, pubblica su una rivista palermitana il breve saggio La soppressione della donna nella struttura familiare a .
Indica in esso alcuni possibili articoli di legge per l’attribuzione del
cognome di entrambi i genitori ai figli, uno per genitore diversamente dalla
legge spagnola del tempo, scongiurando così l’incubo di un’infinita coorte di
cognomi.
È il primo scritto nell’Italia repubblicana che afferma il diritto delle
donne di non veder cancellata la propria identità dal cognome dei figli e delle figlie e che
propone l’istituzione del cosiddetto doppio cognome. Precede infatti il primo
Ddl sul cognome dei figli presentato dalla deputata Maria Magnani Noya alla
Camera nell’ottobre dello stesso anno, in cui non si ipotizza il cognome di
entrambi i genitori ma solo la possibilità che alla prole sia assegnato, per
scelta concorde dei coniugi, il cognome materno e non necessariamente il
paterno.
In un saggio pubblicato da MicroMega b
nel n. 2/2024 - un volumetto ricco di contributi
incisivi - Iole Natoli ripercorre le motivazioni e le tappe della sua
lotta, che dal 1979 si estende sino a oggi per la liberazione del cognome
delle donne dai vetusti orpelli maritali e per l’attribuzione del cognome
della madre ai suoi figli. Non solo infatti è tuttora esistente l’articolo
143-bis, che assegna alla donna coniugata l’onere di aggiungere il cognome
del marito al proprio ma, a dispetto della sentenza 131/2022 della Corte
costituzionale che ha spazzato via definendola incostituzionale la patrilinearità
obbligatoria, questa sopravvive indisturbata perché interiorizzata dalle
persone, in assenza di una legge che renda facilmente fruibili e soprattutto
noti alla popolazione le motivazioni e i termini della riforma.
Attualmente il Parlamento lavora. La Commissione Giustizia del Senato ha
dedicato una serie di audizioni al tema, affiancando alle quattro proposte
senatoriali indicazioni e suggerimenti altrui. Si perverrà questa volta a una
legge, che sia nella sostanza “una buona legge” ?
* * *
Da “Liberiamoci del Patriarcato”, MicroMega 2/2024
LA LUNGA LOTTA
PER IL COGNOME
MATERNO
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Se è vero che dare nomi è un atto linguistico, l’attribuzione del cognome
è l’atto linguistico per eccellenza, con cui si circoscrive, si fonda e si
narra un’appartenenza delle persone all’ordine famigliare. Un ordine che è
stato per secoli rigorosamente patriarcale e patrilineare, finché qualcuna
non ha cominciato a mettere in discussione lo status quo, esigendo il
riconoscimento della madre come origine non solo della nascita, ma di un
nuovo sistema sociale.
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IOLE NATOLI
In nomine patris
Ogni lingua risponde a un’esigenza di nominazione allo scopo di
identificare fenomeni e oggetti (intesi in senso lato, dunque non solo cose),
sia al fine di una sistematizzazione personale del pensiero, sia a fini
comunicativi.
Quando sono venuta al mondo – ormai molto tempo fa – ho appreso l’utilizzo di
un linguaggio che veicolava l’esperienza linguistica di chi mi aveva
preceduta. Come chiunque, sono stata costretta a uniformarmi
inconsapevolmente a quella esperienza, per sopravvivere e inserirmi nel mondo
adulto strutturato secondo certe regole. In tale fase del mio apprendimento,
non potevo avere nessuna consapevolezza del retroterra che aveva prodotto
quelle regole sociali e linguistiche. Le assorbivo come un fatto
ineluttabile, senza minimamente sospettare che ce ne potessero essere altre,
dissimili e perfino contrarie. Quelle regole determinavano il mio mondo, erano
le lenti a fuoco fisso attraverso cui decifrare l’ambiente sociale, per
conformarmi a esso come ci si aspettava che facessi.
Sono dovuta giungere a una fase più matura, benché ancora molto
giovanile, per cominciare a mettere in mettere in dubbio certe configurazioni
della realtà. Il primo dato ad apparirmi inconcepibile era l’assenza del
cognome materno da quello dei figli. Avevo all’incirca 15 anni quando mi sono
posta per la prima volta il problema. Il corpo femminile, mio e altrui,
comunicandomi la realtà per cui si nasce esclusivamente da una donna,
evidenziava la specificità ineguagliabile dell’apporto generativo materno, e
tuttavia attraverso il linguaggio la società forniva a me e alle altre donne
una differente narrazione, secondo cui i figli e le figlie erano emanazioni
del padre, per il quale la madre li fa. Per questo ne portavano il
cognome, atto linguistico con cui si circoscrive, si fonda e si narra
un’appartenenza. Intorno a me non vedevo opposizioni, ma accettazione e
adeguamento a un assetto spacciato per “giusto” e pertanto considerato
“normale”.
Grazie alle fitte maglie di una rete linguistica, in cui il cognome svolgeva
un ruolo primario, una realtà culturale riusciva ad avere il sopravvento su
quella esperienziale, fino a cancellarla. Per verifica diretta posso quindi
affermare che la lingua, forgiata a misura di un’istanza sociale dominante
(ovvero di un interesse maschile), crea una realtà sociale condivisa,
consentendo certe configurazioni a scapito di altre possibili e più valide.
Cannibalizzate
In quelle lingue indoeuropee che più prevedono la
distinzione di genere, l’intento di subordinare le donne sottraendo loro
visibilità e potere è riscontrabile nella regola aurea che fa discendere il
femminile dal maschile, privando il primo di ogni autonomia. In assenza di
derivazione, vige una cancellazione vera e propria. Il sostantivo “donna” non
deriva da “uomo”, il plurale “donne” è distinto da “uomini” ma quest’ultimo
si allarga al punto da designare l’intero genere umano, inglobando pertanto
le donne in una sorta di cannibalismo sottotraccia.
Uno degli esempi più eclatanti è la denominazione italiana della European Convention on Human Rights,
che, mentre nella versione spagnola rispecchia il titolo originario, è
ratificata in Italia come Convenzione
europea dei diritti dell’uomo e ciò benché tra gli articoli della
Convenzione ne esista uno, il 14, che vieta la discriminazione per sesso. Il
tutto in ossequio alla Francia, che ha preteso di mantenere una primogenitura
europea risalente alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino
del 1789, in cui i diritti non venivano estesi alle donne, come denunciato
nel 1791 dalla scrittrice Olympe de Gouges nella sua Déclaration des
droits de la femme et de la citoyenne indirizzata all’Assemblea
costituente francese, affinché ne determinasse l’adozione.
Le operazioni di cannibalizzazione suddette, attuate in un buon numero di
lingue, mi appaiono nettamente volontarie, volte a ritagliare da un universo
collettivo un mondo di nominabili, accessibile a una cerchia ristretta, da
contrapporre a quello degli esclusi e delle escluse dalla nominazione e dal
potere.
Componente essenziale della strategia di esclusione è stata l’istituzione
di un modello familiare nel quale la donna fosse descritta e percepita come
puro strumento di una generatività tutta maschile. Il vantaggio della parte
dominante era rafforzato dal modello linguistico generale imposto.
L’inclusione e l’esclusione venivano sancite fin dalla nascita e trasmesse
mediante una particolare gestione del quotidiano che, pur essendo ben
manifesta, svolgeva il suo ruolo discriminatorio in modo occulto. In Italia,
ma anche altrove, che la donna sposandosi prendesse il cognome del marito
perdendo il proprio (avuto dal padre, dunque sempre da un uomo) era
perfettamente visibile, ma quante e quanti erano interessati a individuarne
la causa nonché l’effetto sortito su ogni donna e sulle generazioni
succedentesi? Chi si prendeva la briga di opporsi all’idea che i figli
dovessero avere necessariamente il cognome del padre e solo il suo? 1
Qualunque vagheggiamento intenzionale o atto concreto volto a minare le
fondamenta dello schema patriarcale è stato tenacemente osteggiato sino a
tempi recenti. L’opposizione si estendeva dal divorzio all’aborto fino alle
richieste di modificare per il cognome di figli e figlie il sistema
unilaterale di “trasmissione” che, benché mai stato tale nel diritto
italiano, trattandosi invece di acquisizione del cognome da parte della
prole, era stato accuratamente congegnato come una trasmissione dall’alto
vera e propria. Tanto dall’alto da essere immune perfino alle rare richieste
di qualche padre, incline a riconoscere il diritto della madre di dare il
proprio cognome a chi aveva direttamente messo al mondo.
A partire dalla nascita, le femmine apprendevano che il cognome paterno
era il loro solo cognome, cosicché percepivano il cognome della madre come
non in grado di rappresentarle nel sociale, traendone un senso di
deprezzamento della propria identità femminile, percepita come inadeguata,
deficitaria, mancante dello stesso potere di quella degli uomini. I plurali
prettamente maschili usati nella lingua per indicare un insieme di uomini e
donne, perfino se presenti in un rapporto di 1 a 5 e anche più, facevano il
resto. C’era poi il singolare maschile narrato ad arte come inclusivo delle
formule burocratiche e giuridiche, che si infiltrava nel linguaggio
quotidiano.
Ho usato i verbi all’imperfetto perché mi sono riferita al funzionamento
massivo del sistema, prima cioè che taluni mutamenti giuridico-culturali
cominciassero a corroderne le basi. Non è da credere, però, che i cambiamenti
siano stati tanto profondi ed estesi da interessare tutta la popolazione; al
contrario, non soltanto l’insieme dei condizionamenti è ancora oggi un
aggregato difficile da scalfire, ma a ogni passo in avanti delle donne
risponde astiosamente la reazione, con nuovi tentativi di ripristino dei
privilegi arbitrari messi in forse.
Genealogie ed etica
della coppia
«L’inizio del potere patriarcale – ossia del potere dell’uomo in quanto
capo legale della famiglia, della tribù, del popolo, dello Stato – si
accompagna alla separazione delle donne tra loro e specialmente alla
separazione della figlia dalla madre», scrive in Sessi e genealogie Luce
Irigaray 2.
«Questa relazione, la più feconda dal punto di vista della salvaguardia della
vita nella pace, è stata distrutta per stabilire un ordine che è invece
legato alla proprietà privata, alla trasmissione dei beni all’interno della
genealogia dell’uomo, all’istituzione del matrimonio monogamico affinché i
beni, compresi i figli, appartengano a quella genealogia, all’istituzione di
organizzazioni sociali tra soli uomini, per preservare lo stesso
marchingegno».
Per una bambina lo sviluppo di una salda identità personale è dunque un
percorso accidentato e complesso. Non soltanto mia madre non può
rappresentarmi, ma la sua stessa presenza quale mia prima ascendente può
declassare persino il valore che viene attribuito a un uomo. Io ho il cognome
di mio padre che è quello del nonno paterno, ma poiché sono femmina non potrò
mai trovare nel mio cognome quello del nonno materno perché lui ha generato
mia madre, cioè ancora una volta una femmina. Per aver generato una femmina e
non un maschio, non avrà mai la possibilità di essere collegato a me e se
potrà invece esserlo con un qualche nipote ciò avverrà solamente se mia madre
avrà avuto un fratello.
In questo senso il cognome patrilineare è linguaggio, mi informa già
di per sé della struttura sociale in cui nasco e delle relazioni di
potere a cui dovrò adeguarmi. Mi informa e mi forma, molto più di quanto
possa fare una qualsiasi frase del linguaggio quotidiano o di quello
giuridico; basta un termine, il cognome che porto e che consente la mia
individuazione sociale, per svelarmi l’intero universo in cui come da copione
vivrò.
Come rileva Adriana Cavarero, «la donna non ha un linguaggio suo, ma
piuttosto utilizza il linguaggio dell’altro. Essa non si autorappresenta nel
linguaggio ma accoglie con questo le rappresentazioni di lei
prodotte dall’uomo. Così la donna si parla e si pensa, ma non a partire da
sé» 3.
«Quali che
siano le regole della moralità, la cancellazione di una genealogia nell’altra
è una colpa etica che perverte lo spirito del popolo, dei popoli, e impedisce
il costituirsi di un’etica della coppia», scrive Luce Irigaray 4.
Proprio in vista di un’etica della coppia, nel mio scritto La soppressione della donna
nella struttura familiare del giugno 1979, il primo dell’Italia
repubblicana con una proposta sul doppio cognome per i figli, che avrei
perfezionato in scritti successivi, dichiaravo: «Se dovessimo fermarci
solamente a considerare in tutta la sua interezza questo “peccato d’origine”
– l’assenza di visibilità della relazione specifica figlia/o-madre – l’unica
naturale soluzione sarebbe: spazziamo via ogni illecita usurpazione, fuori
l’uomo da ogni genealogia; istituiamo con un nuovo matriarcato l’unica
trasmissione ereditaria fondata secondo natura. Ma il problema è complesso»,
proseguivo; «nel reale, il figlio è della coppia ogni qualvolta essa riesce a
strutturarsi al suo interno secondo un rapporto paritario e ogni qualvolta,
alla nascita di un figlio, l’uomo comprende il valore che una genitorialità
sanamente intesa e vissuta può dare all’intero nuovo nucleo che si è formato» 5.
Una storia personale,
che è politica
Nel 1966, appena rimessami dal parto della mia prima figlia, mi recai
all’anagrafe cittadina per chiedere che il mio cognome venisse aggiunto a
quello paterno già attribuito alla bimba. L’impiegato mi osservò
soppesandomi, poi mi comunicò con sussiego che avrei dovuto presentare
istanza al ministro di Grazia e Giustizia (così era all’epoca) che mi avrebbe
eventualmente “concesso” l’aggiunta in questione. Non chiesi nemmeno a cosa
corrispondesse quell’eventualità; offesa dal termine “concessione” per quello
che consideravo un mio diritto, dichiarai che mi rifiutavo di procedere e la
chiusi lì. Quando nacque la mia seconda figlia non provai a ripetere
l’esperienza.
Venne poi il tempo delle manifestazioni femministe, che facevano
traboccare di donne anche le vie e le piazze di Palermo. Le nostre voci si
levavano alte per l’aborto, contro gli stupri, contro tutto. Io riflettevo
intanto sul linguaggio, scrivevo sul ruolo sociale del cognome ed ero certa
che il personale è politico fosse lo slogan che mi rappresentava di
più.
La patrilinearità del cognome, i plurali maschili del linguaggio
quotidiano, il maschile singolare inclusivo del linguaggio giuridico e
burocratico non mi apparivano come tre filoni distinti, casualmente
affiancati l’uno all’altro. Erano figli di una stessa ideologia, di
un’identica “trama della cultura”, costituita da intrecci prestabiliti, da
reticoli collegati ed efficienti, come avevo prima intuito e poi compreso
quando all’università mi ero ritrovata a studiare psicologia, sociologia,
etnologia e antropologia culturale. Probabilmente fu grazie a un tale itinerario
formativo che riuscii a darmi una spiegazione coerente della patrilinearità
del cognome e a collocare in un quadro analitico preciso sia la ribellione
naturale che a 15 anni mi aveva portata a criticare l’assenza del cognome
materno da quello dei figli (provocando il perplesso sconcerto dei miei
familiari, persone colte sì, ma scarsamente allenate a discostarsi da una
qualche tradizione), sia la profonda indignazione per la mia abortita
richiesta all’anagrafe del 1966.
La riforma del diritto di famiglia del 1975 aveva cancellato l’odiosa
sostituzione del cognome della donna all’atto del matrimonio con quello a lei
estraneo del marito. L’articolo 143 bis, tuttora in vigore, stabiliva invece
che la donna sposata dovesse mantenere il suo cognome, al quale avrebbe
aggiunto quello del coniuge.
Insegnavo e a scuola iniziai presto una lotta senza quartiere contro la
direzione amministrativa. In tutti i documenti scolastici, contrariamente al
dettato della nuova legge, ero indicata col solo cognome coniugale e le mie
numerose richieste di rettifica restavano caparbiamente inascoltate.
Cominciai allora a non rispondere al dirigente scolastico se interpellata in
collegio dei docenti con il cognome non mio, per poi alzarmi e dichiarare a
gran voce: «Il mio nome è Iole Natoli e non sono stata chiamata».
Era guerra aperta. «Lei si è sposata!», gridava rosso in viso il
dirigente. «Sì, ma non sono nata coniugata!», urlavo io di rimando. Finii col
respingere sistematicamente tutti i documenti a me non correttamente intestati,
perfino una richiesta di visita fiscale – per nessuna ragione al mondo avrei
accettato di fare marcia indietro – relativa a un periodo di malattia.
Occasione ghiotta per il dirigente invelenito per chiedere al provveditore
una censura, che questi con grande solerzia comminò.
Il procedimento a mio carico mi obbligò a prendere contatto con un
legale, specializzato nel settore scolastico. Con lui discussi dell’intento
soppressivo della visibilità della donna, che aveva determinato nel tempo sia
la sostituzione del cognome per la donna coniugata, modificata
successivamente in aggiunta, sia l’assenza del suo cognome originario da
quello dei figli, consegnandogli altresì quel breve saggio per una proposta
di legge pubblicato nel 1979, che rappresentava il primo passo del mio
impegno politico al riguardo.
L’avvocato accolse senza riserve il mio pensiero. Decidemmo di attaccare alla
radice il problema e nel 1980 presentammo un ricorso al Tribunale ordinario
(distinto, dunque, dal procedimento scolastico, che viaggiava per suo conto)
con l’intento di giungere alla Corte costituzionale, chiedendo l’attribuzione
del mio cognome alle mie due figlie, nate nel matrimonio. L’iniziativa fu
bloccata nel 1982 dalla sentenza negativa di primo grado 6
che, impedendo la decadenza immediata delle norme vigenti minò le basi
giudiziarie per la promulgazione urgente di una nuova normativa, togliendo
fattibilità in tempi brevi non solo alla mia proposta, che
avevo inviato a parlamentari d’ambo i sessi d
confidando in una qualche adozione 7,
ma altresì alle proposte parlamentari che a datare dal ’79 si stavano
affacciando all’orizzonte.
Io avevo impiantato il ricorso lamentando la discriminazione nei
confronti delle madri. Il magistrato chiosò che nemmeno i padri
“trasmettevano” il loro cognome alla prole. Il cognome veniva acquisito dal
figlio per una serie di norme indirette e dunque non c’era diritto di
trasmissione rispetto al quale si potesse ravvisare una discriminazione
dovuta al sesso 8.
Benché mi fosse chiaro che l’eccezione di costituzionalità fosse ravvisabile
ugualmente per l’effetto pratico di quell’insieme di norme, come peraltro la
sentenza della Consulta 131/2022 ha finalmente certificato, mi convinsi
dell’inutilità di andare in appello 9.
Da anni la lotta per l’adozione
del cognome materno, che ho proseguito con articoli, creazione di gruppi
social, lettere
aperte e petizioni nelle varie legislature e, compresa quella in corso, non è più
solo mia. Altre voci sono via via intervenute. A seguito del ricorso di una
coppia, avviato a Bolzano, la sentenza
della Consulta 131 del 31 maggio 2022 10
ha stabilito che l’assegnazione in automatico del solo cognome paterno è
illegittima ab origine, perché in contrasto con l’impianto
antidiscriminatorio della nostra Carta costituzionale, nonché di taluni
trattati internazionali da lunghissimo tempo sottoscritti.
Come aveva già fatto in precedenza, la Corte ha esplicitamente
stigmatizzato il retaggio patriarcale rintracciabile nella patrilinearità
obbligatoria. In quest’ultima occasione, però, ha eliminato ogni moratoria
possibile, istituendo quale regola base l’attribuzione alla prole del cognome
di entrambi i genitori, salvo scelta diversa espressa concordemente dagli
stessi.
Tuttavia, benché la nuova normativa sia in vigore dal giorno successivo
alla pubblicazione della decisione sulla Gazzetta, restano alcune modalità da
definire, per le quali la Corte ha sollecitato ancora una volta il
legislatore, non intendendo sostituirsi, agendo in proprio più del
necessario, al potere legislativo del Parlamento. I diversi disegni di legge
della legislatura attuale si allineano in massima parte ai criteri stabiliti
dalla Corte in sentenza, ma, con l’adozione di formule linguistiche di
derivazione maschilista e l’introduzione della possibilità del cognome comune
per i coniugi, di cui troviamo la più radicale esemplificazione in negativo
nel disegno di legge della senatrice Unterberger 11,
rischiano di determinare nel concreto la preminenza del cognome paterno
rispetto al materno, vanificando il senso più profondo della riforma. È fuor di dubbio che il primo articolo,
con cui la senatrice propone un nuovo 143 bis, porterebbe non i mariti ad
aggiungere quale cognome comune quello delle mogli ma le mogli ad aggiungere
– per continuità con la tradizione – quello dei mariti. Ciò le indurrebbe
in buona percentuale a non richiedere, pur potendolo fare, l’attribuzione del
proprio cognome ai figli, perché a essi si sentirebbero collegate già
mediante il cognome maritale. Quale
conseguenza, molti figli riceverebbero il solo cognome del padre, esattamente
come prima dell’ancor recente sentenza della Corte. Di più: l’ultimo
comma di quel primo articolo – che, ove approvato, sarebbe a mio avviso
impugnabile per incostituzionalità – stabilisce che nel caso in cui i coniugi
non abbiano espresso una scelta su chi dei due debba assumere il cognome
dell’altra/o, sarà la moglie ad aggiungere quale cognome comune quello del
marito. In automatico.
Se vogliamo che il cambiamento tanto a lungo auspicato non si risolva
semplicemente in un diritto formale in più delle donne e dei figli ma che,
nel modificare un mentalità soppressiva consolidata, contribuisca a scardinare
quell’ideologia del possesso maschile delle donne a cui si deve anche la
piaga dei femminicidi, dobbiamo esigere che qualsivoglia aggancio a un
passato illegittimo non trovi posto nella futura legge.
©
Iole Natoli
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