Il Cognome delle Donne e dei Figli e le
“regole auree” del Patriarcato |
||||
|
||||
Nella seconda metà del 18oo, il deputato di origine pugliese Salvatore
Morelli presentò alla Camera regia diverse proposte di legge innovative, di
cui alcune espressamente a favore delle donne. Tra queste, una che istituiva
per i figli il cognome di entrambi i genitori. Si conosce di essa solo il
titolo, non sappiamo se fosse articolata in modo da non creare una
moltiplicazione dei cognomi, o si ispirasse alla legge spagnola che allora
non prevedeva semplificazioni di sorta. Non esistono documenti al riguardo. Nel giugno del 1979 Iole Natoli, richiamandosi ai principi della
Costituzione italiana, pubblica su una rivista palermitana il breve saggio La soppressione della donna nella struttura familiare a .
Indica in esso alcuni possibili articoli di legge per l’attribuzione del
cognome di entrambi i genitori ai figli, uno per genitore diversamente dalla
legge spagnola del tempo, scongiurando così l’incubo di un’infinita coorte di
cognomi. In un saggio pubblicato da MicroMega b
nel n. 2/2024 - un volumetto ricco di contributi
incisivi - Iole Natoli ripercorre le motivazioni e le tappe della sua
lotta, che dal 1979 si estende sino a oggi per la liberazione del cognome
delle donne dai vetusti orpelli maritali e per l’attribuzione del cognome
della madre ai suoi figli. Non solo infatti è tuttora esistente l’articolo
143-bis, che assegna alla donna coniugata l’onere di aggiungere il cognome
del marito al proprio ma, a dispetto della sentenza 131/2022 della Corte
costituzionale che ha spazzato via definendola incostituzionale la patrilinearità
obbligatoria, questa sopravvive indisturbata perché interiorizzata dalle
persone, in assenza di una legge che renda facilmente fruibili e soprattutto
noti alla popolazione le motivazioni e i termini della riforma. * * * Da “Liberiamoci del Patriarcato”, MicroMega 2/2024
LA LUNGA LOTTA IOLE NATOLI In nomine patris Ogni lingua risponde a un’esigenza di nominazione allo scopo di
identificare fenomeni e oggetti (intesi in senso lato, dunque non solo cose),
sia al fine di una sistematizzazione personale del pensiero, sia a fini
comunicativi. Sono dovuta giungere a una fase più matura, benché ancora molto
giovanile, per cominciare a mettere in mettere in dubbio certe configurazioni
della realtà. Il primo dato ad apparirmi inconcepibile era l’assenza del
cognome materno da quello dei figli. Avevo all’incirca 15 anni quando mi sono
posta per la prima volta il problema. Il corpo femminile, mio e altrui,
comunicandomi la realtà per cui si nasce esclusivamente da una donna,
evidenziava la specificità ineguagliabile dell’apporto generativo materno, e
tuttavia attraverso il linguaggio la società forniva a me e alle altre donne
una differente narrazione, secondo cui i figli e le figlie erano emanazioni
del padre, per il quale la madre li fa. Per questo ne portavano il
cognome, atto linguistico con cui si circoscrive, si fonda e si narra
un’appartenenza. Intorno a me non vedevo opposizioni, ma accettazione e
adeguamento a un assetto spacciato per “giusto” e pertanto considerato
“normale”. Cannibalizzate In quelle lingue indoeuropee che più prevedono la distinzione di genere, l’intento di subordinare le donne sottraendo loro visibilità e potere è riscontrabile nella regola aurea che fa discendere il femminile dal maschile, privando il primo di ogni autonomia. In assenza di derivazione, vige una cancellazione vera e propria. Il sostantivo “donna” non deriva da “uomo”, il plurale “donne” è distinto da “uomini” ma quest’ultimo si allarga al punto da designare l’intero genere umano, inglobando pertanto le donne in una sorta di cannibalismo sottotraccia. Uno degli esempi più eclatanti è la denominazione italiana della European Convention on Human Rights,
che, mentre nella versione spagnola rispecchia il titolo originario, è
ratificata in Italia come Convenzione
europea dei diritti dell’uomo e ciò benché tra gli articoli della
Convenzione ne esista uno, il 14, che vieta la discriminazione per sesso. Il
tutto in ossequio alla Francia, che ha preteso di mantenere una primogenitura
europea risalente alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino
del 1789, in cui i diritti non venivano estesi alle donne, come denunciato
nel 1791 dalla scrittrice Olympe de Gouges nella sua Déclaration des
droits de la femme et de la citoyenne indirizzata all’Assemblea
costituente francese, affinché ne determinasse l’adozione.
Componente essenziale della strategia di esclusione è stata l’istituzione di un modello familiare nel quale la donna fosse descritta e percepita come puro strumento di una generatività tutta maschile. Il vantaggio della parte dominante era rafforzato dal modello linguistico generale imposto. L’inclusione e l’esclusione venivano sancite fin dalla nascita e trasmesse mediante una particolare gestione del quotidiano che, pur essendo ben manifesta, svolgeva il suo ruolo discriminatorio in modo occulto. In Italia, ma anche altrove, che la donna sposandosi prendesse il cognome del marito perdendo il proprio (avuto dal padre, dunque sempre da un uomo) era perfettamente visibile, ma quante e quanti erano interessati a individuarne la causa nonché l’effetto sortito su ogni donna e sulle generazioni succedentesi? Chi si prendeva la briga di opporsi all’idea che i figli dovessero avere necessariamente il cognome del padre e solo il suo? 1 Qualunque vagheggiamento intenzionale o atto concreto volto a minare le fondamenta dello schema patriarcale è stato tenacemente osteggiato sino a tempi recenti. L’opposizione si estendeva dal divorzio all’aborto fino alle richieste di modificare per il cognome di figli e figlie il sistema unilaterale di “trasmissione” che, benché mai stato tale nel diritto italiano, trattandosi invece di acquisizione del cognome da parte della prole, era stato accuratamente congegnato come una trasmissione dall’alto vera e propria. Tanto dall’alto da essere immune perfino alle rare richieste di qualche padre, incline a riconoscere il diritto della madre di dare il proprio cognome a chi aveva direttamente messo al mondo. A partire dalla nascita, le femmine apprendevano che il cognome paterno era il loro solo cognome, cosicché percepivano il cognome della madre come non in grado di rappresentarle nel sociale, traendone un senso di deprezzamento della propria identità femminile, percepita come inadeguata, deficitaria, mancante dello stesso potere di quella degli uomini. I plurali prettamente maschili usati nella lingua per indicare un insieme di uomini e donne, perfino se presenti in un rapporto di 1 a 5 e anche più, facevano il resto. C’era poi il singolare maschile narrato ad arte come inclusivo delle formule burocratiche e giuridiche, che si infiltrava nel linguaggio quotidiano. Ho usato i verbi all’imperfetto perché mi sono riferita al funzionamento massivo del sistema, prima cioè che taluni mutamenti giuridico-culturali cominciassero a corroderne le basi. Non è da credere, però, che i cambiamenti siano stati tanto profondi ed estesi da interessare tutta la popolazione; al contrario, non soltanto l’insieme dei condizionamenti è ancora oggi un aggregato difficile da scalfire, ma a ogni passo in avanti delle donne risponde astiosamente la reazione, con nuovi tentativi di ripristino dei privilegi arbitrari messi in forse. Genealogie ed etica della coppia «L’inizio del potere patriarcale – ossia del potere dell’uomo in quanto capo legale della famiglia, della tribù, del popolo, dello Stato – si accompagna alla separazione delle donne tra loro e specialmente alla separazione della figlia dalla madre», scrive in Sessi e genealogie Luce Irigaray 2. «Questa relazione, la più feconda dal punto di vista della salvaguardia della vita nella pace, è stata distrutta per stabilire un ordine che è invece legato alla proprietà privata, alla trasmissione dei beni all’interno della genealogia dell’uomo, all’istituzione del matrimonio monogamico affinché i beni, compresi i figli, appartengano a quella genealogia, all’istituzione di organizzazioni sociali tra soli uomini, per preservare lo stesso marchingegno». Per una bambina lo sviluppo di una salda identità personale è dunque un percorso accidentato e complesso. Non soltanto mia madre non può rappresentarmi, ma la sua stessa presenza quale mia prima ascendente può declassare persino il valore che viene attribuito a un uomo. Io ho il cognome di mio padre che è quello del nonno paterno, ma poiché sono femmina non potrò mai trovare nel mio cognome quello del nonno materno perché lui ha generato mia madre, cioè ancora una volta una femmina. Per aver generato una femmina e non un maschio, non avrà mai la possibilità di essere collegato a me e se potrà invece esserlo con un qualche nipote ciò avverrà solamente se mia madre avrà avuto un fratello. In questo senso il cognome patrilineare è linguaggio, mi informa già di per sé della struttura sociale in cui nasco e delle relazioni di potere a cui dovrò adeguarmi. Mi informa e mi forma, molto più di quanto possa fare una qualsiasi frase del linguaggio quotidiano o di quello giuridico; basta un termine, il cognome che porto e che consente la mia individuazione sociale, per svelarmi l’intero universo in cui come da copione vivrò. Come rileva Adriana Cavarero, «la donna non ha un linguaggio suo, ma
piuttosto utilizza il linguaggio dell’altro. Essa non si autorappresenta nel
linguaggio ma accoglie con questo le rappresentazioni di lei
prodotte dall’uomo. Così la donna si parla e si pensa, ma non a partire da
sé» 3. Proprio in vista di un’etica della coppia, nel mio scritto La soppressione della donna nella struttura familiare del giugno 1979, il primo dell’Italia repubblicana con una proposta sul doppio cognome per i figli, che avrei perfezionato in scritti successivi, dichiaravo: «Se dovessimo fermarci solamente a considerare in tutta la sua interezza questo “peccato d’origine” – l’assenza di visibilità della relazione specifica figlia/o-madre – l’unica naturale soluzione sarebbe: spazziamo via ogni illecita usurpazione, fuori l’uomo da ogni genealogia; istituiamo con un nuovo matriarcato l’unica trasmissione ereditaria fondata secondo natura. Ma il problema è complesso», proseguivo; «nel reale, il figlio è della coppia ogni qualvolta essa riesce a strutturarsi al suo interno secondo un rapporto paritario e ogni qualvolta, alla nascita di un figlio, l’uomo comprende il valore che una genitorialità sanamente intesa e vissuta può dare all’intero nuovo nucleo che si è formato» 5. Una storia personale, che è politica Nel 1966, appena rimessami dal parto della mia prima figlia, mi recai all’anagrafe cittadina per chiedere che il mio cognome venisse aggiunto a quello paterno già attribuito alla bimba. L’impiegato mi osservò soppesandomi, poi mi comunicò con sussiego che avrei dovuto presentare istanza al ministro di Grazia e Giustizia (così era all’epoca) che mi avrebbe eventualmente “concesso” l’aggiunta in questione. Non chiesi nemmeno a cosa corrispondesse quell’eventualità; offesa dal termine “concessione” per quello che consideravo un mio diritto, dichiarai che mi rifiutavo di procedere e la chiusi lì. Quando nacque la mia seconda figlia non provai a ripetere l’esperienza. Venne poi il tempo delle manifestazioni femministe, che facevano traboccare di donne anche le vie e le piazze di Palermo. Le nostre voci si levavano alte per l’aborto, contro gli stupri, contro tutto. Io riflettevo intanto sul linguaggio, scrivevo sul ruolo sociale del cognome ed ero certa che il personale è politico fosse lo slogan che mi rappresentava di più. La patrilinearità del cognome, i plurali maschili del linguaggio quotidiano, il maschile singolare inclusivo del linguaggio giuridico e burocratico non mi apparivano come tre filoni distinti, casualmente affiancati l’uno all’altro. Erano figli di una stessa ideologia, di un’identica “trama della cultura”, costituita da intrecci prestabiliti, da reticoli collegati ed efficienti, come avevo prima intuito e poi compreso quando all’università mi ero ritrovata a studiare psicologia, sociologia, etnologia e antropologia culturale. Probabilmente fu grazie a un tale itinerario formativo che riuscii a darmi una spiegazione coerente della patrilinearità del cognome e a collocare in un quadro analitico preciso sia la ribellione naturale che a 15 anni mi aveva portata a criticare l’assenza del cognome materno da quello dei figli (provocando il perplesso sconcerto dei miei familiari, persone colte sì, ma scarsamente allenate a discostarsi da una qualche tradizione), sia la profonda indignazione per la mia abortita richiesta all’anagrafe del 1966. La riforma del diritto di famiglia del 1975 aveva cancellato l’odiosa sostituzione del cognome della donna all’atto del matrimonio con quello a lei estraneo del marito. L’articolo 143 bis, tuttora in vigore, stabiliva invece che la donna sposata dovesse mantenere il suo cognome, al quale avrebbe aggiunto quello del coniuge. Insegnavo e a scuola iniziai presto una lotta senza quartiere contro la direzione amministrativa. In tutti i documenti scolastici, contrariamente al dettato della nuova legge, ero indicata col solo cognome coniugale e le mie numerose richieste di rettifica restavano caparbiamente inascoltate. Cominciai allora a non rispondere al dirigente scolastico se interpellata in collegio dei docenti con il cognome non mio, per poi alzarmi e dichiarare a gran voce: «Il mio nome è Iole Natoli e non sono stata chiamata». Era guerra aperta. «Lei si è sposata!», gridava rosso in viso il dirigente. «Sì, ma non sono nata coniugata!», urlavo io di rimando. Finii col respingere sistematicamente tutti i documenti a me non correttamente intestati, perfino una richiesta di visita fiscale – per nessuna ragione al mondo avrei accettato di fare marcia indietro – relativa a un periodo di malattia. Occasione ghiotta per il dirigente invelenito per chiedere al provveditore una censura, che questi con grande solerzia comminò. Il procedimento a mio carico mi obbligò a prendere contatto con un
legale, specializzato nel settore scolastico. Con lui discussi dell’intento
soppressivo della visibilità della donna, che aveva determinato nel tempo sia
la sostituzione del cognome per la donna coniugata, modificata
successivamente in aggiunta, sia l’assenza del suo cognome originario da
quello dei figli, consegnandogli altresì quel breve saggio per una proposta
di legge pubblicato nel 1979, che rappresentava il primo passo del mio
impegno politico al riguardo. Io avevo impiantato il ricorso lamentando la discriminazione nei confronti delle madri. Il magistrato chiosò che nemmeno i padri “trasmettevano” il loro cognome alla prole. Il cognome veniva acquisito dal figlio per una serie di norme indirette e dunque non c’era diritto di trasmissione rispetto al quale si potesse ravvisare una discriminazione dovuta al sesso 8. Benché mi fosse chiaro che l’eccezione di costituzionalità fosse ravvisabile ugualmente per l’effetto pratico di quell’insieme di norme, come peraltro la sentenza della Consulta 131/2022 ha finalmente certificato, mi convinsi dell’inutilità di andare in appello 9. Da anni la lotta per l’adozione del cognome materno, che ho proseguito con articoli, creazione di gruppi social, lettere aperte e petizioni nelle varie legislature e, compresa quella in corso, non è più solo mia. Altre voci sono via via intervenute. A seguito del ricorso di una coppia, avviato a Bolzano, la sentenza della Consulta 131 del 31 maggio 2022 10 ha stabilito che l’assegnazione in automatico del solo cognome paterno è illegittima ab origine, perché in contrasto con l’impianto antidiscriminatorio della nostra Carta costituzionale, nonché di taluni trattati internazionali da lunghissimo tempo sottoscritti. Come aveva già fatto in precedenza, la Corte ha esplicitamente stigmatizzato il retaggio patriarcale rintracciabile nella patrilinearità obbligatoria. In quest’ultima occasione, però, ha eliminato ogni moratoria possibile, istituendo quale regola base l’attribuzione alla prole del cognome di entrambi i genitori, salvo scelta diversa espressa concordemente dagli stessi. Tuttavia, benché la nuova normativa sia in vigore dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione sulla Gazzetta, restano alcune modalità da definire, per le quali la Corte ha sollecitato ancora una volta il legislatore, non intendendo sostituirsi, agendo in proprio più del necessario, al potere legislativo del Parlamento. I diversi disegni di legge della legislatura attuale si allineano in massima parte ai criteri stabiliti dalla Corte in sentenza, ma, con l’adozione di formule linguistiche di derivazione maschilista e l’introduzione della possibilità del cognome comune per i coniugi, di cui troviamo la più radicale esemplificazione in negativo nel disegno di legge della senatrice Unterberger 11, rischiano di determinare nel concreto la preminenza del cognome paterno rispetto al materno, vanificando il senso più profondo della riforma. È fuor di dubbio che il primo articolo, con cui la senatrice propone un nuovo 143 bis, porterebbe non i mariti ad aggiungere quale cognome comune quello delle mogli ma le mogli ad aggiungere – per continuità con la tradizione – quello dei mariti. Ciò le indurrebbe in buona percentuale a non richiedere, pur potendolo fare, l’attribuzione del proprio cognome ai figli, perché a essi si sentirebbero collegate già mediante il cognome maritale. Quale conseguenza, molti figli riceverebbero il solo cognome del padre, esattamente come prima dell’ancor recente sentenza della Corte. Di più: l’ultimo comma di quel primo articolo – che, ove approvato, sarebbe a mio avviso impugnabile per incostituzionalità – stabilisce che nel caso in cui i coniugi non abbiano espresso una scelta su chi dei due debba assumere il cognome dell’altra/o, sarà la moglie ad aggiungere quale cognome comune quello del marito. In automatico. Se vogliamo che il cambiamento tanto a lungo auspicato non si risolva semplicemente in un diritto formale in più delle donne e dei figli ma che, nel modificare un mentalità soppressiva consolidata, contribuisca a scardinare quell’ideologia del possesso maschile delle donne a cui si deve anche la piaga dei femminicidi, dobbiamo esigere che qualsivoglia aggancio a un passato illegittimo non trovi posto nella futura legge. |
||||
|
NOTE presenti nel testo cartaceo: |
|||
1 |
Il primo tentativo di opporsi a tale prassi fu compiuto in Italia dal deputato regio Salvatore Morelli (1824-1880), amico di Anna Maria Mozzoni e autore di varie proposte a favore delle donne. Del suo disegno di legge per il doppio cognome rimane però negli archivi del Senato solo il titolo, senza traccia di articoli eventuali. |
|||
2 |
Luce Irigaray, Sessi e genealogie, [1987], trad. it. Luisa Muraro, La Tartaruga, 1987, p. 215. |
|||
3 |
Adriana Cavarero, Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, 1987, p. 52. |
|||
4 |
Luce Irigaray, op. cit., p. 13. |
|||
5 |
Iole Natoli, “La soppressione della donna nella struttura familiare”, Il foglio d’arte, giugno 1979. |
|||
6 |
Per maggiori informazioni si veda il seguente link: bit.ly/3SSbPdv. |
|||
7 |
Il testo della sentenza è disponibile al seguente link: bit.ly/3SOKuc7. |
|||
8 |
A ragione per quei tempi, come avrebbe poi dimostrato il rigetto italiano, con sentenza della Corte costituzionale agente nel 2006, perfino di quel ricorso Cusan e Fazzo che avrebbe determinato nel 2014 la condanna dell’Italia da parte del Tribunale di Strasburgo. “Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 7 gennaio 2014 – Ricorso n. 77/07 – Cusan e Fazio c. Italia”, disponibile sul sito del ministero della Giustizia al seguente link: bit.ly/4bv018i. |
|||
9 |
Il testo della sentenza è disponibile sul sito della Corte costituzionale al seguente link: bit.ly/494MrXx. |
|||
10 |
“Disposizioni in materia di attribuzione del cognome ai figli”, disegno di legge d’iniziativa della senatrice Unterberger, comunicato alla presidenza il 13 ottobre 2022. Link: bit.ly/4bsPDxB. ________________________________________________
NOTE con lettere alfabetiche, per link
aggiunti on line:
|
Nessun commento:
Posta un commento