mercoledì 16 maggio 2012

SOCIETÀ E DIRITTO / Marta Ajò intervista Iole Natoli sul COGNOME MATERNO


Il 30% delle richieste di cambio anagrafico chiede l'aggiunta del nome della madre
Diritto al cognome
Intervista a Iole Natoli: "nessuna legge ci costringe ad adottare il nome paterno"
di Marta Ajò
da: L’Indro (link)
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Iole Natoli
Nelle 6.000 richieste di cambiamento del proprio cognome, che negli ultimi due anni sono state avanzate nel nostro Paese, si può dire che la tipologia più diffusa, al 30%, è la richiesta di aggiunta di quello materno, seguita da un 20% per la richiesta di sostituzione del cognome paterno con quello materno, cui seguono, in percentuale nettamente inferiore, richieste per l’acquisizione di un cognome d’arte o il ripristino del cognome di origine. Fino ad oggi, cambiare il cognome era una pratica molto lunga ed una procedura riservata ai portatori di cognomi ridicoli o disdicevoli, o ai casi di estinzione di cognomi per assenza di discendenti maschi, o ancora ai cognomi di particolare rilievo, per lo più di natura nobiliare o commerciale. 

Con il decreto DPR 54/12 appena pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 108/12, a partire dal 9 luglio di quest’anno cambiare cognome sarà più facile per tutti: si cambia entro un mese dalla richiesta.
Ma se finora le motivazioni prima elencate nel fare uso di questa procedura rientravano nella sfera delle decisioni private, il riconoscimento del cognome materno, oggi più facilmente consentito, comporta diverse implicazioni a cui anche questo DPR parrebbe dare una risposta riduttiva. Non si comprende, infatti, per quale motivo il nascituro debba acquisire alla nascita solo il cognome paterno, rinunciando a sua insaputa, di fatto, ad una parte identitaria che viene trasmessa dalla madre.
L’assunzione del cognome paterno alla nascita in realtà non è mai stata prevista da alcuna norma del codice civile ma è divenuta una prassi consolidata nei secoli. Questa usanza, tradizione, consuetudine ma non legge, è divenuta nel tempo una regola alla quale quasi nessuna/o ha avvertito la necessità di sottrarsi o di opporsi consapevolmente. 
La procedura è andata, di fatto, a confermare una posizione di disparità della donna nella società, a cui per altro le donne stesse si sono di frequente assoggettate e rassegnate fino a condividerne la pratica; il solo cognome materno è stato spesso ritenuto ed usato come elemento discriminante e riprovevole e in questo modo viene ancora sentito in alcune realtà geografiche e culturali.
Non esplicitare la paternità riporta immediatamente, per dirla come una volta, ai figli di NN (padre 'non nominato') di antica memoria, comunque a una nascita fuori delle regole convenzionali che contraddistinguono l’onorabilità della famiglia. Con le richieste di cambiamento e di parità portate avanti nel corso degli anni ’70 dal movimento delle donne e la Risoluzione n. 37 del 27 settembre 1978 del Consiglio d’Europa, qualcosa ha iniziato a muoversi anche nel nostro Paese. Nell’ottobre del 1979 Maria Magnani Noya, avvocata e deputata del Partito Socialista Italiano, presentava il primo progetto di legge sul Cognome dei coniugi e dei figli volto a cambiare la patrilinearità vigente nella società italiana.

Ma quale è stato, nel corso di questi trent’anni, il procedere della via legislativa? Per cercare di fare chiarezza e dare una risposta nel merito, ci siamo rivolte a Iole Natoli che si occupa della questione da lungo tempo.


Come è nata la voglia di lanciarsi personalmente in questa battaglia? 
Potrei rispondere semplicemente così: perché, se sei una donna, sai che i figli saranno fatti in primo luogo da te. L’idea del doppio cognome per me era ovvia e la esposi nella mia famiglia di origine, più o meno intorno ai 16 anni, suscitando sconcerto generale. Alla nascita della mia prima figlia, scoprendo che avrei dovuto inoltrare una richiesta al Ministro di Grazia e Giustizia - così era allora - mi rifiutai, profondamente offesa, di presentarla. Probabilmente non avrei nemmeno ottenuto un risultato, poiché l’accoglimento era limitato a pochi casi particolari, ma a dissuadermi fu il carattere che l’eventuale successo della pratica avrebbe avuto: un marchio esclusivamente privato, di nessuna utilità per le donne. Io volevo riconosciuto un diritto, non ottenere una gentile concessione da parte di una qualche autorità.

Ed invece la causa successiva?
Fu un espediente legale che mi apparve strategico per dar forza al mio progetto sul doppio cognome, elaborato e pubblicato a partire dal giugno del 1979. Se l’eccezione di costituzionalità giunge alla Corte e ottiene parere positivo, pensavo, vi sarà un vuoto legislativo e il Parlamento dovrà correre ai ripari. La mia istanza non approdò alla Consulta, perché bloccata in primo grado dal giudice palermitano cui fu assegnata, ma se anche vi fosse arrivata non avrebbe prodotto l’esito sperato, come dimostrano cause abbastanza recenti intentate da altri. La Corte invita sempre il legislatore a una nuova legge, ma dichiara di non volersi sostituire al Parlamento: di conseguenza rigetta le istanze.

Pensa che la parità passi anche da riforme come questa?
La questione è complessa. Noi non chiediamo il riconoscimento di taluni diritti solo per essere alla pari con gli uomini: quei diritti ci appartengono e per natura e per statuto civile. Manca l’articolazione pratica di essi, non la fonte originaria che discende direttamente e dalla biologia e dalla Costituzione, dal nostro essere cittadine dello Stato italiano a pieno titolo. 
Inoltre il diritto al cognome materno non concerne solo le madri ma è anche un diritto naturale e giuridico delle figlie e dei figli, un diritto che lo Stato italiano non ha fin qui rispettato istituendo le norme appropriate. 
Un altro aspetto, che direi primario, riguarda la conseguenza sociale dell’assenza del cognome materno. Non soltanto l’immagine femminile diviene quella di un soggetto minore, inidoneo a garantire ai figli la formazione dell’identità personale mediante l’acquisizione di un cognome, ma il messaggio subliminale che viene trasmesso all’intero corpo sociale è ancora più pericoloso, perché fonda nell’inconscio collettivo l’idea d’una liceità legale della soppressione della donna. Mai sottovalutare il potere positivo o negativo del simbolico: la formula attualmente in uso veicola un’idea di soppressione che, rafforzata da altri fattori sociali negativi e in alcuni soggetti da un’errata educazione familiare, contribuisce ad alimentare non poco il femminicidio ricorrente.

Questo DPR risponde alle motivazioni per le quali si chiede di volere aggiungere il cognome materno, quando non recepirlo come assoluto?
Nessuna motivazione che riguardi il cognome materno dovrebbe mai essere chiesta, anzi il cognome della madre dovrebbe essere attribuito automaticamente alla nascita. Non possiamo però aspettarci da un DPR, che è un atto di natura amministrativa, che svolga quelle funzioni di modifica che la Corte Costituzionale nega persino a se stessa. Ci vuole e con urgenza una buona legge.

A volte è successo che padri, che alla nascita hanno voluto dare il proprio cognome al figlio, abbiano voluto poi toglierlo (magari per questioni ereditarie); un cambiamento che può comportare gravi danni d’identità. Non è questo un punto cui dare una soluzione?

Le voglie di possesso dei padri, espresse mediante il proprio cognome, non dovrebbero mai ripercuotersi sui figli. Non esiste nel nostro codice un diritto di trasmissione del cognome, nemmeno di quello paterno, ma un diritto di acquisizione del cognome da parte di figlie e figli, che scatta quale effetto della legittimazione. Di conseguenza, visto che il cognome fonda l’identità personale della persona ed è garantito dall’art. 6 c.c., le manovre reattive di padri, che mai devono essersi sentiti tali se giungono a mettere in così seria difficoltà i loro figli, biologici o meno, non dovrebbero avere accoglimento nel nostro stato di diritto. “Non dovrebbero” non esclude che ciò possa anche accadere, nella terra dei cavilli giuridici per eccellenza.

Molte legislature hanno visto presentare progetti che si sono poi arenate nel nulla. Secondo la sua grande esperienza (lei si confronta quotidianamente sul suo blog e nel suo gruppo) quale caratteristiche dovrebbe avere la legge che 'vorremmo'?
Premetto che la mia esperienza, derivante da un’intuizione personale antica, approfondita nel tempo dallo studio delle leggi in materia, precede e non segue la creazione del gruppo e del blog. Quando non disponevo di questi mezzi scrivevo altrove, utilizzando riviste e quotidiani. Parlerei dunque di una lunga frequentazione del tema, che parte pubblicamente dal giugno del 1979 e giunge ad oggi. Per capire quali caratteristiche dovrebbe avere una buona legge, sarà utile evidenziare i limiti quanto meno dei progetti più rappresentativi tra quelli approdati in Parlamento. 
Comincerei dalla proposta dell’on. Maria Magnani Noya, dell’ottobre di quello stesso anno, la prima in assoluto in campo parlamentare. Le norme prevedevano che all’atto del matrimonio gli sposi, con dichiarazione resa all’ufficiale di stato civile, stabilissero quale dei loro cognomi sarebbe divenuto distintivo del nuovo gruppo familiare e attribuito di conseguenza ai figli. Si precisava altresì che il coniuge il cui cognome non fosse stato scelto avrebbe mantenuto il proprio, con facoltà di aggiungervi quello della famiglia. Una formula poco incisiva, ma che costituiva già un serio tentativo di rivoluzione culturale per l’epoca. Interessante leggere il preambolo “Questa soluzione (…) mentre appare rispettosa del principio costituzionale di parità e della volontà dei soggetti interessati, non comporta alcun problema di ordine pratico”. Interessante perché la preoccupazione che traspare è quella di disturbare il meno possibile il sistema sul piano pratico, preoccupazione che sarà una costante, più o meno esplicita, anche di altri progetti successivi. Da rilevare inoltre che la riforma veniva iscritta solo nell’ambito dei diritti della donna e non anche dei figli, che non s’ipotizzava nemmeno il possibile disaccordo dei coniugi, né si teneva conto degli effetti del divorzio, introdotto ben nove anni prima.

A che tipo di effetti si riferisce?
A quelli sperimentati già prima del 1970 dalle vedove, per soffermarci solo ai casi di matrimonio escludendo le situazioni di convivenza. Una vedova con figli, risposandosi, si trovava ad avere figli del primo matrimonio con un cognome e figli del secondo matrimonio con un altro cognome, senza che nessuno di quei cognomi corrispondesse al suo. Idem con il divorzio. La situazione è stata sin qui sconosciuta agli uomini a causa della patrilinearità conclamata, un riparo che verrebbe teoricamente meno per loro con l’introduzione del cognome unico a scelta. Il disagio maggiore è comunque dei figli, costretti a non relazionarsi ai fratelli e in più, per i nati dal precedente matrimonio, a vivere spesso sotto un nuovo tetto in stato di simbolica estraneità.

In questa legislatura l’onorevole Rosy Bindi ha presentato la prima proposta parlamentare sul doppio cognome obbligatorio, affidando al sorteggio l’ordine dei due elementi (uno solo per ciascun genitore). Con quale esito?
Una levata di scudi negativa e un tentativo di riabilitare ad ogni costo la formula 'scegliamo noi genitori per voi figli'. Storte le bocche in tutte le direzioni, la proposta è divenuta comunque il testo base su cui avviare la discussione alla Camera e al quale ciascuno potrà - anzi potrebbe - apportare tutte le modifiche possibili, che saranno - anzi sarebbero - tante, a giudicare dal numero delle proposte esistenti.

Perché il condizionale?
Perché siamo già agli sgoccioli di questa legislatura e, come al solito, non se ne farà proprio nulla. Peraltro, esistono anche due proposte al Senato: la più degna di tale nome, che tuttavia non condivido ugualmente, è quella dell’on. Vittoria Franco, che la riprende dalla legislatura precedente. Un solo cognome a scelta degli sposi, o anche due attribuiti per ordine alfabetico o a scelta degli sposi e trasmissibilità ai figli del primo cognome soltanto, salvo opzione diversa espressa dai coniugi.

Come mai questa qui non le piace?

In primo luogo perché non realizza affatto l’unità familiare, mantenendo irrisolte le situazioni già descritte prima in relazione a vedovanze e divorzi; in secondo luogo, perché l’opzione è tale solo a parole, visto che di fatto la decisione finale, in caso di disaccordo, spetterebbe all’uomo; in terzo luogo perché renderebbe legge l’arbitrio in base al quale i genitori possono decidere di amputare il figlio del naturale collegamento con l’altro genitore e con la famiglia di questi (come già fa lo Stato per adesso).

Dunque apprezza solo quella di Rosy Bindi?

È la più simile alla mia e la considero la più innovativa. Manifesto però una riserva sulle modalità della cosiddetta 'trasmissione'. Il sorteggio relativo all’ordine dei cognomi, formula più avanzata delle altre, rispecchierebbe l’assoluta parità dei coniugi nel loro rapporto coi figli, si crede. Ed è qui che si annida l’errore, perché una parità effettiva tra i genitori nel momento in cui si effettua il riconoscimento di un figlio, cioè poco dopo la nascita, nella vita reale non c’è. 
Non meravigliamoci: rompere i condizionamenti esistenti è difficile per chiunque, sbriciolare poi le mura di cinta della cittadella parlamentare patriarcale, tagliando anche i ponti levatoi, lo è sicuramente anche di più. Io stessa nelle prime formulazioni del mio progetto prevedevo una soluzione meno radicale di quella cui sono pervenuta ultimamente, anche sotto la spinta dell’incalzare dei femminicidi e dunque a seguito di un’analisi più approfondita dei messaggi culturali latenti. In un mio articolo dal titolo 'Se la lezione freudiana è servita portiamo ora allo scoperto il rimosso', ho evidenziato come rimanga ancora una volta occultato dagli ordini alfabetici e dai sorteggi che la madre è il primo oggetto d’amore del bambino, la persona che egli inizia a conoscere con le capacità sensoriali che possiede. Se l’attribuzione del cognome deriva da una relazione di filiazione, allora la prima relazione in assoluto è quella del figlio e della figlia con la madre e non con il padre. Nove mesi di gestazione e un parto, seguiti il più delle volte da alcuni mesi di allattamento, non costituiscono nella vita reale un niente, un qualcosa da cancellare consegnandolo alla rimozione collettiva. Il primo cognome che il figlio ha tutto il diritto di acquisire è dunque il cognome materno, seguito da quello paterno. Solo nei casi di adozione i genitori partono effettivamente alla pari nella costruzione di un rapporto col figlio, ma nella filiazione biologica no.

Quando venne annunciato mesi fa il DPR ora approvato, ci fu un grande clamore sulla stampa in relazione al cognome del patrigno. Di che si tratta e che cosa ne pensa?
Sì, infatti, titoloni a tutto spiano: ora le madri potranno fare aggiungere al cognome dei figli quello del patrigno! Ma che bellezza, che grande trovata! Il punto 2 del Decreto in questione recita: “Le donne divorziate o vedove potranno aggiungere il cognome del nuovo marito ai propri figli”. Affermare che vi fu un boato d’incredulità e di proteste nel gruppo è dir poco. Scrissi e non fui la sola al Presidente della Repubblica esprimendo la mia indignazione, ma mi fu detto da altri, a torto o a ragione, che tale prassi era in uso da prima e che dunque si sarebbe trattato di una semplice riconferma e nient’altro. Come che stiano le cose, il punto 2 costituisce una gravissima stortura, che potrebbe e dovrebbe essere evitata, tenuto conto sia che la sentenza del TAR della Liguria n. 57 del 13.01.2012 ha dato forza legale alla possibilità di aggiungere al proprio cognome anche quello di un estraneo, sia che parimenti di un estraneo sarebbe per un bambino il cognome del patrigno. 
Basterebbe infatti che la madre facesse aggiungere al cognome dei figli di primo e secondo matrimonio il proprio, per creare un legame oggettivo tra sé e tutti i suoi figli. Quanto al nuovo marito… beh, visto che il cambio di cognome può essere chiesto anche dagli adulti, toccherebbe esattamente a lui far aggiungere al suo il cognome della moglie, già presente nel cognome dei piccoli, per attuare un collegamento familiare pieno, senza che venga manipolata a proprio piacimento l’identità reale dei bambini.

Nel suo Gruppo è apparso un commento in cui si invita letteralmente a intasare con le richieste di cambio cognome le Prefetture d’Italia: “e vediamo se alla fine non nascerà una vera e propria legge sul cognome materno!”, ha concluso quasi con sfida un’iscritta. Lei ha dichiarato di condividerlo: perché?

Certo, l’ho appoggiato dandogli il giusto rilievo e integrandolo con un “Forza donne, giochiamoci questa partita!”. Lucia Faleri è una militante agguerrita: ha già utilizzato questa via - venti mesi di lungaggini burocratiche, che la presenza di una legge a monte avrebbe evitate a entrambi i coniugi - e suo figlio ora porta anche il suo cognome. 
Quanto a me, quest’anno ho lanciato sul blog e su FB un Manifesto, suggerendo di fare dell’8 Marzo la Giornata del Cognome Materno in Italia e invitando le donne a subissare di domande quelle Prefetture, che fino ad oggi sono state un tramite e che ora diventano invece titolari del procedimento. Quella stessa richiesta, che avrebbe avuto poco successo al tempo della nascita della mia prima figlia e che sarebbe rimasta confinata nel privato, diventa oggi - mutati i tempi - un’arma utilissima.

In che senso sarebbe un’arma e per cosa?
Non soltanto allargando il fronte di coloro che portano già il cognome materno, s’indurrà il Parlamento a svegliarsi dal suo colpevole letargo, ma diffondere l’uso del doppio cognome servirà a ridurre le simpatie per quelle proposte conservatrici che, in nome di una malintesa libertà, si appigliano al cognome unico a scelta o a formule miste, ben sapendo che continuerà a prevalere nel costume il cognome paterno soltanto. 
Non ci serve una legge che nasconda l’uno o l’altro dei genitori e non ci serve una legge che prevarichi, attribuendo a loro e non ai figli il diritto di stabilire, alla maggiore età, se tenersi entrambi i cognomi o se optare per uno solo di essi, a propria scelta.  Il patriarcato non colpisce solo le donne ma tutti, sia pure con modalità differenti; va individuato e va stroncato in pieno, sotto qualsiasi spoglia si presenti. Non può esistere il possesso delle persone: nemmeno quello di padri e madri su figli e figlie.

16.05.2012  


© Marta Ajò
L’Indro

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