sabato 28 settembre 2024

Nacque a Palermo nell’Italia repubblicana la lunga lotta per il #Cognome Materno

Il Cognome delle Donne e dei Figli e le “regole auree” del Patriarcato
Di
Iole Natoli


A mia madre, Tina Nisi

 

Nella seconda metà del 18oo, il deputato di origine pugliese Salvatore Morelli presentò alla Camera regia diverse proposte di legge innovative, di cui alcune espressamente a favore delle donne. Tra queste, una che istituiva per i figli il cognome di entrambi i genitori. Si conosce di essa solo il titolo, non sappiamo se fosse articolata in modo da non creare una moltiplicazione dei cognomi, o si ispirasse alla legge spagnola che allora non prevedeva semplificazioni di sorta. Non esistono documenti al riguardo.
Di quei disegni di legge presentati fu approvato solamente quello che rendeva le donne soggetti attendibili ai fini di una testimonianza nei processi.

Nel giugno del 1979 Iole Natoli, richiamandosi ai principi della Costituzione italiana, pubblica su una rivista palermitana il breve saggio La soppressione della donna nella struttura familiare  a . Indica in esso alcuni possibili articoli di legge per l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori ai figli, uno per genitore diversamente dalla legga spagnola del tempo, scongiurando così l’incubo di un’infinita coorte di cognomi.
È il primo scritto nell’Italia repubblicana che afferma il diritto delle donne di non veder cancellata la propria identità dal cognome dei figli e che propone l’istituzione del cosiddetto doppio cognome. Precede infatti il primo Ddl sul cognome dei figli presentato dalla deputata Maria Magnani Noya alla Camera nell’ottobre dello stesso anno, in cui non si ipotizza il cognome di entrambi i genitori ma solo la possibilità che alla prole sia assegnato, per scelta concorde dei coniugi, il cognome materno e non necessariamente il paterno.

In un saggio pubblicato da MicroMega b nel n. 2/2024 - un volumetto ricco di contributi incisivi - Iole Natoli ripercorre le motivazioni e le tappe della sua lotta, che dal 1979 si estende sino a oggi per la liberazione del cognome delle donne dai vetusti orpelli maritali e per l’attribuzione del cognome della madre ai suoi figli. Non solo infatti è ancor oggi esistente l’articolo 143-bis, che assegna alla donna coniugata l’onere di aggiungere il cognome del marito al proprio, ma a dispetto della sentenza 131/2022 della Corte costituzionale, che ha spazzato via definendola incostituzionale la patrilinearità obbligatoria, questa sopravvive indisturbata perché interiorizzata dalle persone, in assenza di una legge che renda facilmente fruibili e soprattutto noti alla popolazione le motivazioni e i termini della riforma.
Attualmente il Parlamento lavora. La Commissione Giustizia del Senato ha dedicato una serie di audizioni al tema, affiancando alle quattro proposte senatoriali indicazioni e suggerimenti altrui. Si perverrà questa volta a una legge, che sia nella sostanza
una “buona legge” ?

* * *

Da “Liberiamoci del Patriarcato”, MicroMega 2/2024

 

Link

 

LA LUNGA LOTTA
PER IL COGNOME
MATERNO 
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Se è vero che dare nomi è un atto linguistico, l’attribuzione del cognome è l’atto linguistico per eccellenza, con cui si circoscrive, si fonda e si narra un’appartenenza delle persone all’ordine famigliare. Un ordine che è stato per secoli rigorosamente patriarcale e patrilineare, finché qualcuna non ha cominciato a mettere in discussione lo status quo, esigendo il riconoscimento della madre come origine non solo della nascita, ma di un nuovo sistema sociale.
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IOLE NATOLI

In nomine patris

Ogni lingua risponde a un’esigenza di nominazione allo scopo di identificare fenomeni e oggetti (intesi in senso lato, dunque non solo cose), sia al fine di una sistematizzazione personale del pensiero, sia a fini comunicativi.
Quando sono venuta al mondo – ormai molto tempo fa – ho appreso l’utilizzo di un linguaggio che veicolava l’esperienza linguistica di chi mi aveva preceduta. Come chiunque, sono stata costretta a uniformarmi inconsapevolmente a quella esperienza, per sopravvivere e inserirmi nel mondo adulto strutturato secondo certe regole. In tale fase del mio apprendimento, non potevo avere nessuna consapevolezza del retroterra che aveva prodotto quelle regole sociali e linguistiche. Le assorbivo come un fatto ineluttabile, senza minimamente sospettare che ce ne potessero essere altre, dissimili e perfino contrarie. Quelle regole determinavano il mio mondo, erano le lenti a fuoco fisso attraverso cui decifrare l’ambiente sociale, per conformarmi a esso come ci si aspettava che facessi.

Sono dovuta giungere a una fase più matura, benché ancora molto giovanile, per cominciare a mettere in mettere in dubbio certe configurazioni della realtà. Il primo dato ad apparirmi inconcepibile era l’assenza del cognome materno da quello dei figli. Avevo all’incirca 15 anni quando mi sono posta per la prima volta il problema. Il corpo femminile, mio e altrui, comunicandomi la realtà per cui si nasce esclusivamente da una donna, evidenziava la specificità ineguagliabile dell’apporto generativo materno, e tuttavia attraverso il linguaggio la società forniva a me e alle altre donne una differente narrazione, secondo cui i figli e le figlie erano emanazioni del padre, per il quale la madre li fa. Per questo ne portavano il cognome, atto linguistico con cui si circoscrive, si fonda e si narra un’appartenenza. Intorno a me non vedevo opposizioni, ma accettazione e adeguamento a un assetto spacciato per “giusto” e pertanto considerato “normale”.
Grazie alle fitte maglie di una rete linguistica, in cui il cognome svolgeva un ruolo primario, una realtà culturale riusciva ad avere il sopravvento su quella esperienziale, fino a cancellarla. Per verifica diretta posso quindi affermare che la lingua, forgiata a misura di un’istanza sociale dominante (ovvero di un interesse maschile), crea una realtà sociale condivisa, consentendo certe configurazioni a scapito di altre possibili e più valide.

Cannibalizzate

In quelle lingue indoeuropee che più prevedono la distinzione di genere, l’intento di subordinare le donne sottraendo loro visibilità e potere è riscontrabile nella regola aurea che fa discendere il femminile dal maschile, privando il primo di ogni autonomia. In assenza di derivazione, vige una cancellazione vera e propria. Il sostantivo “donna” non deriva da “uomo”, il plurale “donne” è distinto da “uomini” ma quest’ultimo si allarga al punto da designare l’intero genere umano, inglobando pertanto le donne in una sorta di cannibalismo sottotraccia.

Uno degli esempi più eclatanti è la denominazione italiana della European Convention on Human Rights, che, mentre nella versione spagnola rispecchia il titolo originario, è ratificata in Italia come Convenzione europea dei diritti dell’uomo e ciò benché tra gli articoli della Convenzione ne esista uno, il 14, che vieta la discriminazione per sesso. Il tutto in ossequio alla Francia, che ha preteso di mantenere una primogenitura europea risalente alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, in cui i diritti non venivano estesi alle donne, come denunciato nel 1791 dalla scrittrice Olympe de Gouges nella sua Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne indirizzata all’Assemblea costituente francese, affinché ne determinasse l’adozione.

Le operazioni di cannibalizzazione suddette, attuate in un buon numero di lingue, mi appaiono nettamente volontarie, volte a ritagliare da un universo collettivo un mondo di nominabili, accessibile a una cerchia ristretta, da contrapporre a quello degli esclusi e delle escluse dalla nominazione e dal potere.

Componente essenziale della strategia di esclusione è stata l’istituzione di un modello familiare nel quale la donna fosse descritta e percepita come puro strumento di una generatività tutta maschile. Il vantaggio della parte dominante era rafforzato dal modello linguistico generale imposto. L’inclusione e l’esclusione venivano sancite fin dalla nascita e trasmesse mediante una particolare gestione del quotidiano che, pur essendo ben manifesta, svolgeva il suo ruolo discriminatorio in modo occulto. In Italia, ma anche altrove, che la donna sposandosi prendesse il cognome del marito perdendo il proprio (avuto dal padre, dunque sempre da un uomo) era perfettamente visibile, ma quante e quanti erano interessati a individuarne la causa nonché l’effetto sortito su ogni donna e sulle generazioni succedentesi? Chi si prendeva la briga di opporsi all’idea che i figli dovessero avere necessariamente il cognome del padre e solo il suo? 1

Qualunque vagheggiamento intenzionale o atto concreto volto a minare le fondamenta dello schema patriarcale è stato tenacemente osteggiato sino a tempi recenti. L’opposizione si estendeva dal divorzio all’aborto fino alle richieste di modificare per il cognome di figli e figlie il sistema unilaterale di “trasmissione” che, benché mai stato tale nel diritto italiano, trattandosi invece di acquisizione del cognome da parte della prole, era stato accuratamente congegnato come una trasmissione dall’alto vera e propria. Tanto dall’alto da essere immune perfino alle rare richieste di qualche padre, incline a riconoscere il diritto della madre di dare il proprio cognome a chi aveva direttamente messo al mondo.

A partire dalla nascita, le femmine apprendevano che il cognome paterno era il loro solo cognome, cosicché percepivano il cognome della madre come non in grado di rappresentarle nel sociale, traendone un senso di deprezzamento della propria identità femminile, percepita come inadeguata, deficitaria, mancante dello stesso potere di quella degli uomini. I plurali prettamente maschili usati nella lingua per indicare un insieme di uomini e donne, perfino se presenti in un rapporto di 1 a 5 e anche più, facevano il resto. C’era poi il singolare maschile narrato ad arte come inclusivo delle formule burocratiche e giuridiche, che si infiltrava nel linguaggio quotidiano.

Ho usato i verbi all’imperfetto perché mi sono riferita al funzionamento massivo del sistema, prima cioè che taluni mutamenti giuridico-culturali cominciassero a corroderne le basi. Non è da credere, però, che i cambiamenti siano stati tanto profondi ed estesi da interessare tutta la popolazione; al contrario, non soltanto l’insieme dei condizionamenti è ancora oggi un aggregato difficile da scalfire, ma a ogni passo in avanti delle donne risponde astiosamente la reazione, con nuovi tentativi di ripristino dei privilegi arbitrari messi in forse.

Genealogie ed etica della coppia

«L’inizio del potere patriarcale – ossia del potere dell’uomo in quanto capo legale della famiglia, della tribù, del popolo, dello Stato – si accompagna alla separazione delle donne tra loro e specialmente alla separazione della figlia dalla madre», scrive in Sessi e genealogie Luce Irigaray 2. «Questa relazione, la più feconda dal punto di vista della salvaguardia della vita nella pace, è stata distrutta per stabilire un ordine che è invece legato alla proprietà privata, alla trasmissione dei beni all’interno della genealogia dell’uomo, all’istituzione del matrimonio monogamico affinché i beni, compresi i figli, appartengano a quella genealogia, all’istituzione di organizzazioni sociali tra soli uomini, per preservare lo stesso marchingegno».

Per una bambina lo sviluppo di una salda identità personale è dunque un percorso accidentato e complesso. Non soltanto mia madre non può rappresentarmi, ma la sua stessa presenza quale mia prima ascendente può declassare persino il valore che viene attribuito a un uomo. Io ho il cognome di mio padre che è quello del nonno paterno, ma poiché sono femmina non potrò mai trovare nel mio cognome quello del nonno materno perché lui ha generato mia madre, cioè ancora una volta una femmina. Per aver generato una femmina e non un maschio, non avrà mai la possibilità di essere collegato a me e se potrà invece esserlo con un qualche nipote ciò avverrà solamente se mia madre avrà avuto un fratello.

In questo senso il cognome patrilineare è linguaggio, mi informa già di per sé della struttura sociale in cui nasco e delle relazioni di potere a cui dovrò adeguarmi. Mi informa e mi forma, molto più di quanto possa fare una qualsiasi frase del linguaggio quotidiano o di quello giuridico; basta un termine, il cognome che porto e che consente la mia individuazione sociale, per svelarmi l’intero universo in cui come da copione vivrò.

Come rileva Adriana Cavarero, «la donna non ha un linguaggio suo, ma piuttosto utilizza il linguaggio dell’altro. Essa non si autorappresenta nel linguaggio ma accoglie con questo le rappresentazioni di lei prodotte dall’uomo. Così la donna si parla e si pensa, ma non a partire da sé» 3.
«Quali che siano le regole della moralità, la cancellazione di una genealogia nell’altra è una colpa etica che perverte lo spirito del popolo, dei popoli, e impedisce il costituirsi di un’etica della coppia», scrive Luce Irigaray
4.

Proprio in vista di un’etica della coppia, nel mio scritto La soppressione della donna nella struttura familiare del giugno 1979, il primo dell’Italia repubblicana con una proposta sul doppio cognome per i figli, che avrei perfezionato in scritti successivi, dichiaravo: «Se dovessimo fermarci solamente a considerare in tutta la sua interezza questo “peccato d’origine” – l’assenza di visibilità della relazione specifica figlia/o-madre – l’unica naturale soluzione sarebbe: spazziamo via ogni illecita usurpazione, fuori l’uomo da ogni genealogia; istituiamo con un nuovo matriarcato l’unica trasmissione ereditaria fondata secondo natura. Ma il problema è complesso», proseguivo; «nel reale, il figlio è della coppia ogni qualvolta essa riesce a strutturarsi al suo interno secondo un rapporto paritario e ogni qualvolta, alla nascita di un figlio, l’uomo comprende il valore che una genitorialità sanamente intesa e vissuta può dare all’intero nuovo nucleo che si è formato» 5.

 

Una storia personale, che è politica

Nel 1966, appena rimessami dal parto della mia prima figlia, mi recai all’anagrafe cittadina per chiedere che il mio cognome venisse aggiunto a quello paterno già attribuito alla bimba. L’impiegato mi osservò soppesandomi, poi mi comunicò con sussiego che avrei dovuto presentare istanza al ministro di Grazia e Giustizia (così era all’epoca) che mi avrebbe eventualmente “concesso” l’aggiunta in questione. Non chiesi nemmeno a cosa corrispondesse quell’eventualità; offesa dal termine “concessione” per quello che consideravo un mio diritto, dichiarai che mi rifiutavo di procedere e la chiusi lì. Quando nacque la mia seconda figlia non provai a ripetere l’esperienza.

Venne poi il tempo delle manifestazioni femministe, che facevano traboccare di donne anche le vie e le piazze di Palermo. Le nostre voci si levavano alte per l’aborto, contro gli stupri, contro tutto. Io riflettevo intanto sul linguaggio, scrivevo sul ruolo sociale del cognome ed ero certa che il personale è politico fosse lo slogan che mi rappresentava di più.

La patrilinearità del cognome, i plurali maschili del linguaggio quotidiano, il maschile singolare inclusivo del linguaggio giuridico e burocratico non mi apparivano come tre filoni distinti, casualmente affiancati l’uno all’altro. Erano figli di una stessa ideologia, di un’identica “trama della cultura”, costituita da intrecci prestabiliti, da reticoli collegati ed efficienti, come avevo prima intuito e poi compreso quando all’università mi ero ritrovata a studiare psicologia, sociologia, etnologia e antropologia culturale. Probabilmente fu grazie a un tale itinerario formativo che riuscii a darmi una spiegazione coerente della patrilinearità del cognome e a collocare in un quadro analitico preciso sia la ribellione naturale che a 15 anni mi aveva portata a criticare l’assenza del cognome materno da quello dei figli (provocando il perplesso sconcerto dei miei familiari, persone colte sì, ma scarsamente allenate a discostarsi da una qualche tradizione), sia la profonda indignazione per la mia abortita richiesta all’anagrafe del 1966.

La riforma del diritto di famiglia del 1975 aveva cancellato l’odiosa sostituzione del cognome della donna all’atto del matrimonio con quello a lei estraneo del marito. L’articolo 143 bis, tuttora in vigore, stabiliva invece che la donna sposata dovesse mantenere il suo cognome, al quale avrebbe aggiunto quello del coniuge.

Insegnavo e a scuola iniziai presto una lotta senza quartiere contro la direzione amministrativa. In tutti i documenti scolastici, contrariamente al dettato della nuova legge, ero indicata col solo cognome coniugale e le mie numerose richieste di rettifica restavano caparbiamente inascoltate. Cominciai allora a non rispondere al dirigente scolastico se interpellata in collegio dei docenti con il cognome non mio, per poi alzarmi e dichiarare a gran voce: «Il mio nome è Iole Natoli e non sono stata chiamata».

Era guerra aperta. «Lei si è sposata!», gridava rosso in viso il dirigente. «Sì, ma non sono nata coniugata!», urlavo io di rimando. Finii col respingere sistematicamente tutti i documenti a me non correttamente intestati, perfino una richiesta di visita fiscale – per nessuna ragione al mondo avrei accettato di fare marcia indietro – relativa a un periodo di malattia. Occasione ghiotta per il dirigente invelenito per chiedere al provveditore una censura, che questi con grande solerzia comminò.

Il procedimento a mio carico mi obbligò a prendere contatto con un legale, specializzato nel settore scolastico. Con lui discussi dell’intento soppressivo della visibilità della donna, che aveva determinato nel tempo sia la sostituzione del cognome per la donna coniugata, modificata successivamente in aggiunta, sia l’assenza del suo cognome originario da quello dei figli, consegnandogli altresì quel breve saggio per una proposta di legge pubblicato nel 1979, che rappresentava il primo passo del mio impegno politico al riguardo.
L’avvocato accolse senza riserve il mio pensiero. Decidemmo di attaccare alla radice il problema e nel 1980 presentammo un ricorso al Tribunale ordinario (distinto, dunque, dal procedimento scolastico, che viaggiava per suo conto) con l’intento di giungere alla Corte costituzionale, chiedendo l’attribuzione del mio cognome alle mie due figlie, nate nel matrimonio. L’iniziativa fu bloccata nel 1982 dalla
sentenza negativa di primo grado 6 che, impedendo la decadenza immediata delle norme vigenti minò le basi giudiziarie per la promulgazione urgente di una nuova normativa, togliendo fattibilità in tempi brevi non solo alla mia proposta, che avevo inviato a parlamentari d’ambo i sessi d confidando in una qualche adozione 7, ma altresì alle proposte parlamentari che a datare dal ’79 si stavano affacciando all’orizzonte.

Io avevo impiantato il ricorso lamentando la discriminazione nei confronti delle madri. Il magistrato chiosò che nemmeno i padri “trasmettevano” il loro cognome alla prole. Il cognome veniva acquisito dal figlio per una serie di norme indirette e dunque non c’era diritto di trasmissione rispetto al quale si potesse ravvisare una discriminazione dovuta al sesso 8. Benché mi fosse chiaro che l’eccezione di costituzionalità fosse ravvisabile ugualmente per l’effetto pratico di quell’insieme di norme, come peraltro la sentenza della Consulta 131/2022 ha finalmente certificato, mi convinsi dell’inutilità di andare in appello 9.

 Da anni la lotta per l’adozione del cognome materno, che ho proseguito con articoli, creazione di gruppi social, lettere aperte e petizioni nelle varie legislature, compresa quella in corso, non è più solo mia. Altre voci sono via via intervenute. A seguito del ricorso di una coppia, avviato a Bolzano, la sentenza della Consulta 131 del 31 maggio 2022 10 ha stabilito che l’assegnazione in automatico del solo cognome paterno è illegittima ab origine, perché in contrasto con l’impianto antidiscriminatorio della nostra Carta costituzionale, nonché di taluni trattati internazionali da lunghissimo tempo sottoscritti.

Come aveva già fatto in precedenza, la Corte ha esplicitamente stigmatizzato il retaggio patriarcale rintracciabile nella patrilinearità obbligatoria. In quest’ultima occasione, però, ha eliminato ogni moratoria possibile, istituendo quale regola base l’attribuzione alla prole del cognome di entrambi i genitori, salvo scelta diversa espressa concordemente dagli stessi.

Tuttavia, benché la nuova normativa sia in vigore dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione sulla Gazzetta, restano alcune modalità da definire, per le quali la Corte ha sollecitato ancora una volta il legislatore, non intendendo sostituirsi, agendo in proprio più del necessario, al potere legislativo del Parlamento. I diversi disegni di legge della legislatura attuale si allineano in massima parte ai criteri stabiliti dalla Corte in sentenza, ma, con l’adozione di formule linguistiche di derivazione maschilista e l’introduzione della possibilità del cognome comune per i coniugi, di cui troviamo la più radicale esemplificazione in negativo nel disegno di legge della senatrice Unterberger 11, rischiano di determinare nel concreto la preminenza del cognome paterno rispetto al materno, vanificando il senso più profondo della riforma. È fuor di dubbio che il primo articolo, con cui la senatrice propone un nuovo 143 bis, porterebbe non i mariti ad aggiungere quale cognome comune quello delle mogli ma le mogli ad aggiungere – per continuità con la tradizione – quello dei mariti. Ciò le indurrebbe in buona percentuale a non richiedere, pur potendolo fare, l’attribuzione del proprio cognome ai figli, perché a essi si sentirebbero collegate già mediante il cognome maritale. Quale conseguenza, molti figli riceverebbero il solo cognome del padre, esattamente come prima dell’ancor recente sentenza della Corte. Di più: l’ultimo comma di quel primo articolo – che, ove approvato, sarebbe a mio avviso impugnabile per incostituzionalità – stabilisce che nel caso in cui i coniugi non abbiano espresso una scelta su chi dei due debba assumere il cognome dell’altra/o, sarà la moglie ad aggiungere quale cognome comune quello del marito. In automatico.

Se vogliamo che il cambiamento tanto a lungo auspicato non si risolva semplicemente in un diritto formale in più delle donne e dei figli ma che, nel modificare un mentalità soppressiva consolidata, contribuisca a scardinare quell’ideologia del possesso maschile delle donne a cui si deve anche la piaga dei femminicidi, dobbiamo esigere che qualsivoglia aggancio a un passato illegittimo non trovi posto nella futura legge.

© Iole Natoli

 

 NOTE presenti nel testo cartaceo:

1

Il primo tentativo di opporsi a tale prassi fu compiuto in Italia dal deputato regio Salvatore Morelli (1824-1880), amico di Anna Maria Mozzoni e autore di varie proposte a favore delle donne. Del suo disegno di legge per il doppio cognome rimane però negli archivi del Senato solo il titolo, senza traccia di articoli eventuali.

2

Luce Irigaray, Sessi e genealogie, [1987], trad. it. Luisa Muraro, La Tartaruga, 1987, p. 215.

3

Adriana Cavarero, Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, 1987, p. 52.


4

Luce Irigaray, op. cit., p. 13.


5

Iole Natoli, “La soppressione della donna nella struttura familiare”, Il foglio d’arte, giugno 1979.

6

Per maggiori informazioni si veda il seguente link: bit.ly/3SSbPdv.

7

Il testo della sentenza è disponibile al seguente link:  bit.ly/3SOKuc7.

8

A ragione per quei tempi, come avrebbe poi dimostrato il rigetto italiano, con sentenza della Corte costituzionale agente nel 2006, perfino di quel ricorso Cusan e Fazzo che avrebbe determinato nel 2014 la condanna dell’Italia da parte del Tribunale di Strasburgo. “Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 7 gennaio 2014 – Ricorso n. 77/07 – Cusan e Fazio c. Italia”, disponibile sul sito del ministero della Giustizia al seguente link: bit.ly/4bv018i.


9

Il testo della sentenza è disponibile sul sito della Corte costituzionale al seguente link:  bit.ly/494MrXx.

10

“Disposizioni in materia di attribuzione del cognome ai figli”, disegno di legge d’iniziativa della senatrice Unterberger, comunicato alla presidenza il 13 ottobre 2022. Link: bit.ly/4bsPDxB.

________________________________________________ 

   

NOTE con lettere alfabetiche, per link aggiunti on line:

a    Iole Natoli, “La soppressione della donna nella struttura familiare”, Il foglio d’arte, giugno 1979 - https://cognomematerno-archiviostorico-italia.blogspot.com/2013/06/doppio-cognome-per-i-figli-in-italia_25.html
b    Iole Natoli, “La lunga lotta per il Cognome Materno”, in “Liberiamoci del Patriarcato”, MicroMega 2/2024 pp. 81-89. Link: https://www.ibs.it/micromega-2024-vol-2-liberiamoci-libro-vari/e/9791280852182
c    Prima sentenza italiana sul Cognome Materno, Trib. Civile, Sez. I, sentenza 865/82 del 19.02.1982 (giudice rel. Salvatore Salvago).
d    Iole Natoli, “La lunga strada del cognome materno in Italia / Parte prima” -  https://cognomematerno-archiviostorico-italia.blogspot.com/2013/07/la-lunga-strada-del-cognome-materno-in.html.

 

domenica 22 settembre 2024

CIRCOLARE del Ministero dell'Interno sui COGNOMI delle donne coniugate

Dietro richiesta di Noi Rete Donne, VIA IL “COGNOME MARITALE” dalle tessere elettorali delle donne

Di Iole Natoli


Il Ministero dell’Interno ha emanato la circolare n. 75/2024 accogliendo la specifica richiesta di Noi Rete Donne espressa col documento del 26.06.2024 firmato da Daniela Carlà, Iole Natoli, Antonella Ida Roselli, Antonella Anselmo, Carla Bassu, Cecilia Carmassi, Sabrina Cicin, Amalia Diurni, Marilù Mastrogiovanni, che era stata successivamente illustrata da una delegazione della Rete in un incontro presso il Ministero.

In occasione di nuove votazioni comunali, regionali, nazionali, europee, per elezioni, referendum o altro a partire da adesso le donne saranno, dunque, almeno in questa circostanza, unicamente se stesse.

22 Settembre 2024

© Iole Natoli

 

 

giovedì 19 settembre 2024

DORME ANESTETIZZATA IN PARLAMENTO UNA PROPOSTA DELLA SENATRICE D’ELIA

DISEGNO DI LEGGE n. 76, Senato

Di Iole Natoli

Foto di it.freepik.com

Nel mio recente scritto #143 bis e #156 bis - Due articoli del codice civile che ledono la dignità delle donne / Il patriarcato, le identità personali e la stampella del Cognome Maritale, rilevavo che eliminare la presenza del cognome del marito dalle liste e dalle tessere elettorali - come chiesto a giugno di quest’anno da Noi Rete Donne al Ministro Matteo Piantedosi e alla Ministra Eugenia Roccella, a ridosso delle elezioni europee - costituirebbe un passo significativo, che non cancellerebbe però la discriminazione nei confronti delle donne contenuta negli artt. 143 bis e 156 bis del codice civile.

Questi due articoli, infatti, col prevedere “l’aggiunta“ del cognome maritale per le donne, le “certificano” come cittadine di serie B, bisognose di un apporto maschile per presentare se stesse nella società, ledendone di conseguenza la dignità personale.

Tornando alla prima questione, quella inerente alle tessere e alle liste elettorali. trovo utile segnalare un’interessante proposta di legge presentata nell’ottobre del 2022, dunque in questa legislatura, dalla Sen. Cecilia D’Elia.

DISEGNO DI LEGGE n. 76, Senato
«Modifiche all’articolo 4 della legge 7 ottobre 1947, n. 1058, concernenti la soppressione della distinzione per sesso nella compilazione delle liste elettorali, l’indicazione del codice fiscale dell’elettore e l’omissione del cognome del coniuge per le donne coniugate o vedove».
Consta di
un solo articolo che risolverebbe velocemente un problema.

Annunciato nella seduta n. 27 dell'11 gennaio 2023, il Ddl risulta assegnato nella stessa data alla 1ª Commissione permanente (Affari Costituzionali) in sede referente. Previsti i pareri delle seguenti commissioni: 2ª (Giustizia), 3ª (Aff. esteri e difesa), 4ª (Unione europea), 5ª (Bilancio).

Mai iniziata, dal gennaio dello scorso anno, la trattazione.

 

19 Settembre 2024

© Iole Natoli

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domenica 15 settembre 2024

#143 bis e #156 bis - Due articoli del codice civile che ledono la dignità delle donne

Il patriarcato, le identità personali
e la stampella del Cognome Maritale

Di Iole Natoli

Foto di it.freepik.com

Giorni addietro, in uno dei due gruppi sul cognome materno fondati da me (quello privato), un’iscritta ha chiesto notizie di una mia Petizione relativa al 143 bis (cognome della moglie), articolo di natura patriarcale ancora presente nel nostro codice civile. Probabilmente pensava che fosse una petizione recente, o invece ricordava l’iniziativa di qualche mese fa di Noi Rete Donne, a cui ho partecipato, contro la presenza del cognome maritale nelle liste e nei documenti elettorali delle cittadine italiane.
In tutte le petizioni che a datare dal 2013 ho lanciato e inviato al Parlamento nelle varie legislature, contenenti alcuni possibili articoli per una legge sul cognome materno ai figli, ho trattato dell’oltraggioso 143 bis. Altre due sono state dedicate però in maniera più estesa a quest’articolo e al suo fratello minore 156 bis, del quale abitualmente non si parla benché svolga un ruolo cruciale nel conferire un carattere di obbligo al maggiore, malgrado l’incostituzionalità che lo marchia e l’evidente contrasto con diverse convenzioni internazionali che trattano della discriminazione contro le donne.

La prima delle due, inviata nella XVII Legislatura, attaccava nel 2015 il Ddl già approvato alla Camera e giunto col n. 1628 in Senato. Ciò perché il testo unificato aveva lasciato inalterato il vecchio 143 bis, sopprimendone la modifica che inizialmente era invece inclusa nella proposta-base della deputata Garavini.

La seconda, della XVIII Legislatura, lanciata il 2 giugno 2019 e diretta ai Presidenti di Camera e Senato, al Presidente della Repubblica e a diversi parlamentari e ministri, aveva per titolo #Stop143bisCognomeMaritale - Risolvere la liturgia maschilista dei cognomi.
Una Proposta di legge del settembre 2019 - a firma di Schirò, Gribaudo, Siragusa, Boldrini, Serracchiani, Enrico Borghi, Siani, Ciampi, Bruno Bossio, Rizzo Nervo, Carla Cantone, Annibali, Ungaro, La Marca, Di Giorgi, Pezzopane, Carnevali - si muoveva alla Camera proprio nella stessa direzione. Non fu mai discussa in Commissione.

Non ho ripresentato la mia Petizione del 2019 nella presente legislatura perché la legge teoricamente in fieri sul cognome dei figli contempla già una modifica di quell’articolo e dunque ho ritenuto superfluo, al momento, lanciare un’iniziativa limitata al 143 bis.
Non è detto, però, che questa sia la scelta vincente. Qualora, a dispetto delle numerose audizioni che lodevolmente hanno già avuto luogo e che da poco si sono concluse, la riforma relativa al cognome dei figli non vedesse la luce entro i termini previsti, la situazione si presenterebbe immutata nella legislatura successiva. Se il rischio di stallo permanente in questa dovesse tramutarsi disgraziatamente in quasi certezza, sarebbe dunque utile intervenire prima delle nuove elezioni, che esse avvengano alla scadenza fisiologica del mandato parlamentare o in eventuale anticipo sui tempi.

Per quanto concerne la presenza del cognome maritale nelle liste e nei documenti elettorali delle donne, trovo utile precisare alcune cose in merito all’iniziativa già citata.

Poiché del 143 bis mi ero occupata in passato, non solo con le Petizioni citate ma, ancor prima, con un mio articolo giornalistico del 1980 dal titolo “Ma è proprio obbligatorio il cognome del marito?”, quando nel giugno di quest’anno Daniela Carlà, coordinatrice di Noi Rete Donne, ebbe a comunicare in una delle varie chat della Rete il desiderio espresso da alcune iscritte di un’azione specifica relativa alla prassi elettorale, mi attivai immediatamente. Poco dopo feci però marcia indietro, non avendo riscontrato a un primo sguardo nei documenti che mi venivano indicati nulla di utile cui appigliarsi per ottenere il risultato voluto. Questo finché, spulciandoli con pazienza punto per punto, non ebbi a imbattermi nel DPR dell’8 settembre 2000 n. 299 tuttora in vigore, in cui con esplicito riferimento alle caratteristiche della tessera elettorale all’art. 2, co. 2, lett. a) si stabilisce che «il nome e cognome delle donne coniugate può essere seguito dal cognome  del marito». Può non indica un obbligo ma una facoltà ed è impensabile che questa sia lasciata alla discrezione degli uffici elettorali, dato che col parere n. 1746/97 del 10/12/199 il Consiglio di Stato aveva già chiarito che «ai fini dell’identificazione della persona vale esclusivamente il cognome da nubile».
Disposizioni di questo tipo non cancellano la legge ma costituiscono ugualmente delle indicazioni prescrittive a cui, a livello amministrativo, gli uffici avrebbero l’obbligo di conformarsi.

Pensai così di giocare la partita puntando in primo luogo su questo materiale, oltre che su sentenze e trattati, e imbastendo un documento che, nelle mie intenzioni, doveva avere la veste di un “esposto non giudiziario” - come d’altronde è stato per diverse mie Lettere aperte. Un testo da inviare, sì, al Ministro dell'Interno per ottenere da lui una circolare ma per mezzo del quale, soprattutto, sollecitare su FB quelle donne che si erano trovate nella situazione lamentata a presentare una vera e propria denuncia al Garante della Privacy o una per via giudiziaria, articolata in modo da sollevare eccezione di costituzionalità del 143 bis (ho sempre avuto la passione per i ricorsi alla Corte).

Emerse poi, nella discussione in chat, che il progetto della coordinatrice era diverso perché puntava invece su un incontro diretto, cosicché fu deciso di ritoccare in alcuni punti la forma del documento, eliminandone il carattere di esposto, e di accompagnarlo con una Lettera alle autorità preposte, aspetti di cui si occupò un’altra iscritta. Non denunce, dunque, ma richieste. Cosa conseguirà in concreto a quell’incontro al momento non lo sappiamo.

Sarebbe bene però riflettere su un aspetto essenziale: quand’anche l’esito della richiesta dovesse essere positivo, come ci si augura, l’insulto alle donne costituito dal 143 bis del codice civile non verrebbe meno per questo.
Per quanto contrario alla Costituzione, alla Convenzione EDU e a tutti gli altri trattati internazionali che sanciscono il diritto alla parità e alla non discriminazione per sesso, quel dannato 143 bis non solo esiste ma è rafforzato, negativamente per le donne, da quel 156 bis che puntella il carattere impositivo dell’aggiunta.
Che cosa recitano in sostanza i due articoli?

Art. 143 bis: «La moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze».
Aggiunge e non «può» aggiungere o «ha facoltà di». Lo fa e basta.

Art. 156 bis: «Il giudice può vietare alla moglie l'uso del cognome del marito [143bis], quando tale uso sia a lui gravemente pregiudizievole, e può parimenti autorizzare la moglie a non usare il cognome stesso, qualora dall'uso possa derivarle grave pregiudizio».
In altri termini, il non uso non è liberamente deciso dalla donna coniugata ma deve essere autorizzato da un giudice, senza l’autorizzazione del quale il non uso sarebbe addirittura illegittimo. Non solo, ma l'articolo introduce una restrizione ulteriore, in quanto l’autorizzazione può essere data SOLO in caso di grave pregiudizio che da quell’utilizzo deriverebbe alla donna.

Ora, il 156-bis non è un articolo che si riferisce a situazioni precedenti annullate; è stato concepito e introdotto esattamente con la Legge 19 maggio 1975 n. 151, la stessa che ha varato il 143 bis. Rientra in un progetto unitario e ha il ruolo di completamento del 143 bis sull’aggiunta.

Attribuire al 143 bis un carattere facoltativo, come spesso è stato fatto, deriva dunque da una percezione sociale che non ha però riscontro oggettivo nella Legge; questa, infatti, non viene minimamente modificata dal DPR dell’8 settembre 2000 n. 299 riguardante i documenti elettorali. Né appellarsi alla sentenza della Cassazione (Sez. I Civ) n.1692 del 13.07.1961, che attribuiva carattere non coercitivo non all’aggiunta ma all’assunzione del cognome del marito sancita dall’art. 144 c.c. ha un qualche senso, perché quella sentenza del 1961 si riferiva a un articolo successivamente fatto fuori proprio dalla legge di riforma del diritto di famiglia del 1975, che introduceva al suo posto il 143 bis e il 156 bis.

Una legge può solo essere espressamente abrogata mediante una nuova legge (o un decreto legge), oppure decadere perché dichiarata incostituzionale dalla Consulta nell’ambito di un ricorso giudiziario mirato; nessuna di queste due vie è stata praticata fino a oggi.

Vorrei richiamare quindi l’attenzione su un punto. Ottenere l’inibizione della prassi di aggiunta del cognome maritale nelle liste e nei documenti elettorali femminili sarebbe auspicabile e costituirebbe, se accadesse, già un piccolo successo. Non cancellerebbe però quella dichiarazione di presunta minorità delle donne, costituita dalla presenza nel nostro codice civile del 143 bis e del 156 bis. L’abolizione di questi due articoli va perseguita comunque e sarà opportuno far qualcosa in tal senso prima dello scadere della legislatura.

15.09.2024

© Iole Natoli

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