domenica 15 settembre 2024

#143 bis e #156 bis - Due articoli del codice civile che ledono la dignità delle donne

Il patriarcato, le identità personali
e la stampella del Cognome Maritale

Di Iole Natoli

Foto di it.freepik.com

Giorni addietro, in uno dei due gruppi sul cognome materno fondati da me (quello privato), un’iscritta ha chiesto notizie di una mia Petizione relativa al 143 bis (cognome della moglie), articolo di natura patriarcale ancora presente nel nostro codice civile. Probabilmente pensava che fosse una petizione recente, o invece ricordava l’iniziativa di qualche mese fa di Noi Rete Donne, a cui ho partecipato, contro la presenza del cognome maritale nelle liste e nei documenti elettorali delle cittadine italiane.
In tutte le petizioni che a datare dal 2013 ho lanciato e inviato al Parlamento nelle varie legislature, contenenti alcuni possibili articoli per una legge sul cognome materno ai figli, ho trattato dell’oltraggioso 143 bis. Altre due sono state dedicate però in maniera più estesa a quest’articolo e al suo fratello minore 156 bis, del quale abitualmente non si parla benché svolga un ruolo cruciale nel conferire un carattere di obbligo al maggiore, malgrado l’incostituzionalità che lo marchia e l’evidente contrasto con diverse convenzioni internazionali che trattano della discriminazione contro le donne.

La prima delle due, inviata nella XVII Legislatura, attaccava nel 2015 il Ddl già approvato alla Camera e giunto col n. 1628 in Senato. Ciò perché il testo unificato aveva lasciato inalterato il vecchio 143 bis, sopprimendone la modifica che inizialmente era invece inclusa nella proposta-base della deputata Garavini.

La seconda, della XVIII Legislatura, lanciata il 2 giugno 2019 e diretta ai Presidenti di Camera e Senato, al Presidente della Repubblica e a diversi parlamentari e ministri, aveva per titolo #Stop143bisCognomeMaritale - Risolvere la liturgia maschilista dei cognomi.
Una Proposta di legge del settembre 2019 - a firma di Schirò, Gribaudo, Siragusa, Boldrini, Serracchiani, Enrico Borghi, Siani, Ciampi, Bruno Bossio, Rizzo Nervo, Carla Cantone, Annibali, Ungaro, La Marca, Di Giorgi, Pezzopane, Carnevali - si muoveva alla Camera proprio nella stessa direzione. Non fu mai discussa in Commissione.

Non ho ripresentato la mia Petizione del 2019 nella presente legislatura perché la legge teoricamente in fieri sul cognome dei figli contempla già una modifica di quell’articolo e dunque ho ritenuto superfluo, al momento, lanciare un’iniziativa limitata al 143 bis.
Non è detto, però, che questa sia la scelta vincente. Qualora, a dispetto delle numerose audizioni che lodevolmente hanno già avuto luogo e che da poco si sono concluse, la riforma relativa al cognome dei figli non vedesse la luce entro i termini previsti, la situazione si presenterebbe immutata nella legislatura successiva. Se il rischio di stallo permanente in questa dovesse tramutarsi disgraziatamente in quasi certezza, sarebbe dunque utile intervenire prima delle nuove elezioni, che esse avvengano alla scadenza fisiologica del mandato parlamentare o in eventuale anticipo sui tempi.

Per quanto concerne la presenza del cognome maritale nelle liste e nei documenti elettorali delle donne, trovo utile precisare alcune cose in merito all’iniziativa già citata.

Poiché del 143 bis mi ero occupata in passato, non solo con le Petizioni citate ma, ancor prima, con un mio articolo giornalistico del 1980 dal titolo “Ma è proprio obbligatorio il cognome del marito?”, quando nel giugno di quest’anno Daniela Carlà, coordinatrice di Noi Rete Donne, ebbe a comunicare in una delle varie chat della Rete il desiderio espresso da alcune iscritte di un’azione specifica relativa alla prassi elettorale, mi attivai immediatamente. Poco dopo feci però marcia indietro, non avendo riscontrato a un primo sguardo nei documenti che mi venivano indicati nulla di utile cui appigliarsi per ottenere il risultato voluto. Questo finché, spulciandoli con pazienza punto per punto, non ebbi a imbattermi nel DPR dell’8 settembre 2000 n. 299 tuttora in vigore, in cui con esplicito riferimento alle caratteristiche della tessera elettorale all’art. 2, co. 2, lett. a) si stabilisce che «il nome e cognome delle donne coniugate può essere seguito dal cognome  del marito». Può non indica un obbligo ma una facoltà ed è impensabile che questa sia lasciata alla discrezione degli uffici elettorali, dato che col parere n. 1746/97 del 10/12/199 il Consiglio di Stato aveva già chiarito che «ai fini dell’identificazione della persona vale esclusivamente il cognome da nubile».
Disposizioni di questo tipo non cancellano la legge ma costituiscono ugualmente delle indicazioni prescrittive a cui, a livello amministrativo, gli uffici avrebbero l’obbligo di conformarsi.

Pensai così di giocare la partita puntando in primo luogo su questo materiale, oltre che su sentenze e trattati, e imbastendo un documento che, nelle mie intenzioni, doveva avere la veste di un “esposto non giudiziario” - come d’altronde è stato per diverse mie Lettere aperte. Un testo da inviare, sì, al Ministro dell'Interno per ottenere da lui una circolare ma per mezzo del quale, soprattutto, sollecitare su FB quelle donne che si erano trovate nella situazione lamentata a presentare una vera e propria denuncia al Garante della Privacy o una per via giudiziaria, articolata in modo da sollevare eccezione di costituzionalità del 143 bis (ho sempre avuto la passione per i ricorsi alla Corte).

Emerse poi, nella discussione in chat, che il progetto della coordinatrice era diverso perché puntava invece su un incontro diretto, cosicché fu deciso di ritoccare in alcuni punti la forma del documento, eliminandone il carattere di esposto, e di accompagnarlo con una Lettera alle autorità preposte, aspetti di cui si occupò un’altra iscritta. Non denunce, dunque, ma richieste. Cosa conseguirà in concreto a quell’incontro al momento non lo sappiamo.

Sarebbe bene però riflettere su un aspetto essenziale: quand’anche l’esito della richiesta dovesse essere positivo, come ci si augura, l’insulto alle donne costituito dal 143 bis del codice civile non verrebbe meno per questo.
Per quanto contrario alla Costituzione, alla Convenzione EDU e a tutti gli altri trattati internazionali che sanciscono il diritto alla parità e alla non discriminazione per sesso, quel dannato 143 bis non solo esiste ma è rafforzato, negativamente per le donne, da quel 156 bis che puntella il carattere impositivo dell’aggiunta.
Che cosa recitano in sostanza i due articoli?

Art. 143 bis: «La moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze».
Aggiunge e non «può» aggiungere o «ha facoltà di». Lo fa e basta.

Art. 156 bis: «Il giudice può vietare alla moglie l'uso del cognome del marito [143bis], quando tale uso sia a lui gravemente pregiudizievole, e può parimenti autorizzare la moglie a non usare il cognome stesso, qualora dall'uso possa derivarle grave pregiudizio».
In altri termini, il non uso non è liberamente deciso dalla donna coniugata ma deve essere autorizzato da un giudice, senza l’autorizzazione del quale il non uso sarebbe addirittura illegittimo. Non solo, ma l'articolo introduce una restrizione ulteriore, in quanto l’autorizzazione può essere data SOLO in caso di grave pregiudizio che da quell’utilizzo deriverebbe alla donna.

Ora, il 156-bis non è un articolo che si riferisce a situazioni precedenti annullate; è stato concepito e introdotto esattamente con la Legge 19 maggio 1975 n. 151, la stessa che ha varato il 143 bis. Rientra in un progetto unitario e ha il ruolo di completamento del 143 bis sull’aggiunta.

Attribuire al 143 bis un carattere facoltativo, come spesso è stato fatto, deriva dunque da una percezione sociale che non ha però riscontro oggettivo nella Legge; questa, infatti, non viene minimamente modificata dal DPR dell’8 settembre 2000 n. 299 riguardante i documenti elettorali. Né appellarsi alla sentenza della Cassazione (Sez. I Civ) n.1692 del 13.07.1961, che attribuiva carattere non coercitivo non all’aggiunta ma all’assunzione del cognome del marito sancita dall’art. 144 c.c. ha un qualche senso, perché quella sentenza del 1961 si riferiva a un articolo successivamente fatto fuori proprio dalla legge di riforma del diritto di famiglia del 1975, che introduceva al suo posto il 143 bis e il 156 bis.

Una legge può solo essere espressamente abrogata mediante una nuova legge (o un decreto legge), oppure decadere perché dichiarata incostituzionale dalla Consulta nell’ambito di un ricorso giudiziario mirato; nessuna di queste due vie è stata praticata fino a oggi.

Vorrei richiamare quindi l’attenzione su un punto. Ottenere l’inibizione della prassi di aggiunta del cognome maritale nelle liste e nei documenti elettorali femminili sarebbe auspicabile e costituirebbe, se accadesse, già un piccolo successo. Non cancellerebbe però quella dichiarazione di presunta minorità delle donne, costituita dalla presenza nel nostro codice civile del 143 bis e del 156 bis. L’abolizione di questi due articoli va perseguita comunque e sarà opportuno far qualcosa in tal senso prima dello scadere della legislatura.

15.09.2024

© Iole Natoli

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