CEDU - Corte Europea di Strasburgo, 7 gennaio 2014
Occultamento del Cognome materno e Diritto
di Iole
Natoli
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«Gli antichi ellenici, che
ammettevano la filiazione solo dopo il riconoscimento paterno, durante i riti
natali emarginavano la madre e deponevano il bambino a terra per simulare una
rinascita che nulla avesse a che fare con il ventre femminile: l’assegnazione
del nome, da parte del padre, sanciva l’ingresso nel mondo giuridico», Maria Pia Ercolini in “Nominare per
esistere: Nomi e Cognomi”, 2011, Venezia.
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Immaginiamo
d’intraprendere un viaggio tra le alte montagne dello Yunnan sulle orme di
Francesca Rosati Freeman, una ricercatrice che ha narrato della cultura Moso
nel suo libro Benvenuti nel Paese delle
Donne e il cui recente documentario su quella popolazione, che vede la
coregia di Pio D’Emilia, è stato ammesso al
Documentary Outlook International Market del festival di Nyon.
Se lo facessimo, ci imbatteremmo in una
serena società senza mariti e conseguentemente senza mogli, dove le relazioni
familiari son vissute in modo completamente diverso dal nostro, dove non
essendoci matrimoni non vi sono neanche separazioni e divorzi, dove i figli
non abbandonano mai il gruppo familiare materno, dove gli stupri e la
violenza sulle donne non sfiorano nemmeno da lontano l’immaginario maschile
di quel popolo.
Benché
tanto ci sarebbe da dire su quella comunità che sconosce il potere
verticistico, tipico delle società patriarcali, mi fermerò per il momento a
un dato che porta direttamente al nostro tema: presso i Moso vige la trasmissione matrilineare del cognome.
Stessa
cosa presso la comunità Minangkabau,
illustrata in un video di Heide Göttner-Abendroth, che ho avuto modo di
vedere a Torino nel marzo 2012, alla Conferenza Internazionale “Culture
Indigene di Pace” cui ero presente in qualità di relatrice.
Quante
sono le società in cui la trasmissione matrilineare del cognome costituisce la
regola e come sono distribuite sul globo? È una domanda che meriterebbe
un’ampia trattazione, soprattutto perché alla matrilinearità del cognome si accompagnano caratteristiche
sociali che andrebbero esaminate sino in fondo; sarà utile tornare più in là sull’argomento.
Per il momento spostiamoci in
Europa, con l’occhio vigile ad altre parti del mondo, e in Europa scegliamo Strasburgo
ove ha sede la Corte Europea, istituita
nel 1959 dalla “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo
e delle libertà fondamentali” (CEDU, 1950), per tutelarne l’applicazione
concreta.
Il 7 gennaio di quest’anno, la Corte ha pubblicato
la sentenza di condanna dell’Italia, per violazione degli artt. 8 e 14 della
CEDU, in relazione al ricorso presentato nel 2007 dalla coppia Cusan e Fazzo in
cui si denunciava l’evidente discriminazione nei confronti della donna,
consumata mediante il rifiuto opposto a partire dal 1999 dallo
Stato italiano ai due coniugi, che intendevano attribuire il cognome materno
in luogo del paterno alla loro figlia neonata.
La richiesta dei due genitori aveva già
attraversato i canonici livelli di giudizio in Italia: primo ricorso al
Tribunale ordinario di Milano, secondo ricorso a quello d’Appello, terzo
ricorso alla Corte di Cassazione con approdo finale alla Corte Costituzionale
che però aveva respinto l’istanza.
Quest’ultima aveva infatti ritenuto che l’assenza
di una normativa che indicasse in quale altro modo fosse da attribuire il
cognome, a livello nazionale e non singolo, le imponesse - allo scopo di non creare un vuoto legislativo - di limitarsi a sollecitare il
Parlamento ad adeguarsi alle mutate condizioni sociali, col varare una legge
atta rimuovere ogni residuo di mentalità patriarcale dall’insieme delle norme
vigenti sul cognome dei figli.
Non è
stata dello stesso parere la Corte Europea che ha espresso una sentenza di
condanna nei confronti dello Stato italiano, invitandolo a porre in atto una
nuova normativa e nuove pratiche entro tre mesi dalla pubblicazione della
sentenza, … pena la multa.
Ma in che consiste la violazione ravvisata? È da
notare che la Convenzione del 1950 (in sigla CEDU) era già stata non solo
sottoscritta ma anche ratificata dall’Italia, con
legge nazionale del 4 agosto 1955. Questo significa che ai contenuti di quel
documento l’Italia era ed è obbligata
ad attenersi a partire da quella data di ratifica.
I contenuti
che hanno dato luogo alla condanna in questione sono due.
L’uno è l’articolo 8, che ha per oggetto il diritto al rispetto della vita privata e
familiare, e stabilisce al comma 2 che “non può esservi ingerenza di
un’autorità pubblica nell’esercizio di questo diritto se non nel caso in cui
tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una
società democratica, sia necessaria
alla sicurezza nazionale, alla sicurezza pubblica, al benessere economico del
paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione delle infrazioni penali,
alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e
delle libertà altrui”.
L’altro è l’articolo 14, che ha per oggetto il divieto di discriminazione e stabilisce che “il
godimento dei diritti e delle libertà riconosciute nella presente Convenzione
deve essere assicurato senza
distinzione alcuna fondata espressamente sul sesso, la razza, il colore,
la lingua, la religione, le opinioni politiche o d’altro tipo, l’origine
nazionale o sociale, l’appartenenza a una minorità nazionale, la fortuna, la
nascita o qualsiasi altra situazione”.
I ricorrenti Alessandra Cusan e Luigi Fazzo avevano
rilevato giustamente come nell’articolo 8 rientrasse il diritto al nome (costituito
da prenome + cognome) e come lo Stato italiano avesse interferito con tale
loro diritto ledendolo, per ragioni che non soltanto non sono mai state espressamente
definite da una legge (come l’art. 8 invece impone), ma che sono interamente non necessarie rispetto a
qualsiasi fine dello Stato, operando così una palese discriminazione basata solo sulla differenza di sesso
(violazione dell’art. 14).
Non sarà a questo punto
superfluo ricordare che oltre alla CEDU, l’Italia ha già sottoscritto e
ratificato Convenzioni e Trattati in abbondanza, pur astenendosi allegramente
dall’applicarli relativamente al cognome dei figli (e non solo).
Stralcio e riassumo da un
mio articolo on line dal titolo Nel
Mirino del Consiglio d’Europa, apparso su un mio blog qualche anno fa.
«Nel 1978, con
Risoluzione n. 37 del 27 settembre, il Consiglio d’Europa proclama la
necessità che i Paesi membri adottino legislazioni rispondenti al principio dell’uguaglianza dei coniugi,
anche in tema di cognome dei figli.
È solo il primo gradino
di un processo, articolato mediante varie scansioni. Seguono infatti: la
Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di
discriminazione contro le donne (CEDAW), adottata dall’ONU nel dicembre del 1979
e in vigore in Italia dal 1985; due Raccomandazioni del Consiglio d’Europa, l’una
del 1995 e l’altra del 1998; il Trattato di Lisbona, con atti finali del dicembre
2007, ratificato in Italia con Legge n. 130 del 2.08.2008». Qualcuno potrebbe
pensare che non basti?
Che dunque lo Stato
italiano ancora oggi non abbia provveduto a discutere e approvare una legge,
lasciando bellamente decadere tutte le proposte - alcune abbastanza buone o
mediocri e altre pessime - presentate in Parlamento nelle scorse Legislature,
non può essere considerato casuale. E non lo ha considerato casuale la Corte
Europea di Strasburgo, condannando nel gennaio di quest’anno l’Italia. Questa
cronica resistenza a una Legge deriva infatti da un difetto culturale
profondamente diffuso in questo nostro Paese, che Caterina Soffici, in un suo articolo on line apparso su Il Fatto quotidiano nel novembre del
2011, ha più che appropriatamente definito come il “Paese più
maschilista d’Europa”.
Questo articolo è apparso sul n. 0 di MAYBE (->∆), rivista che ha poi interrotto ogni pubblicazione.
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Il cognome patrilineare, in Italia come in ogni Paese in cui vige, è il burqa culturale delle donne (©Iole Natoli).
mercoledì 26 marzo 2014
Il COGNOME MATERNO su MAYBE / "Una sentenza che condanna l'Italia" di Iole Natoli
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