lunedì 3 marzo 2014

SIMBOLI FORTI E COGNOMI DI FAMIGLIA


LA COSCIENZA CIVILE DI UN PAESE
di Iole Natoli

Sono trascorsi oltre 34 anni da quando nel giugno del 1979 pubblicavo per un mensile palermitano “La soppressione della donna nella struttura familiare(->∆),  mio primo scritto su patriarcato e cognome dei figli e oltre 33 dacché il mio secondo articolo sul tema approdava a un quotidiano siciliano (->∆), ponendo in discussione senso e validità del famigerato 143 bis, che con la scusa di collegare le donne ai loro figli continuava (e ancora continua) a munirle del cognome maritale, grazie alla riforma solo parziale del diritto di famiglia del 1975.

 
Iole Natoli - Progetto biologico - 1977

Ne sono passati però molti di più, da quando nel un uomo di straordinario impegno civile, Salvatore Morelli, deputato della Camera Regia, provava in ogni modo ad abbattere la discriminazione nei confronti delle donne e la loro conseguente sudditanza, presentando o tentando di presentare alla Camera progetti legislativi o recitando arringhe infiammate che i colleghi non volevano ascoltare. Di tutto quello che cercò di fare andò in porto solamente un progetto e a distanza di moltissimi anni, mentre la sua proposta sul doppio cognome dei figli, la cui eventuale strutturazione in articoli non risulta dagli Atti parlamentari del 1875, non ottenne mai il beneficio di poter essere pubblicamente discussa in Parlamento.
È singolare come per moltissimo tempo la questione del cognome dei figli non sia stata posta dalle donne in relazione al potere patriarcale pur essendone un simbolo evidente di notevole peso specifico (non dimentichiamo che sino al 1975 le donne non “aggiungevano” ma addirittura “assumevano” il cognome del marito).
È invece non altrettanto singolare che un uomo, il giurista Giovanni Conso, abbia potuto scrivere nel 1980 in un commento alla notizia della prima causa civile contro lo Stato per l’attribuzione “anche” del cognome materno ai figli (la mia, svoltasi a Palermo ->∆) ciò che segue: “Quanto ai profili di ordine costituzionale non sembra facile rintracciare un contrasto con quel fondamentale articolo 25 della Costituzione, in forza del quale il matrimonio dev'essere bensì «ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi», ma «con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare»”, ritornello che verrà ripreso dalla Consulta nelle sue pronunce in merito al ricorso dei coniugi Cusan e Fazzo, limiti e garanzie che sono state “bacchettate” e rese nulle quest’anno dalla sentenza della Corte Europea di Strasburgo, di cui tanto al momento si parla.
«Non sempre gli schemi escogitati dalla tradizione sono da respingere nella loro totalità. Spesso vi sono sottintese esigenze pratiche ineludibili» concludeva curiosamente l’accademico. Frase non solo imprudente e lontana da qualsiasi logica di matematica elementare, ma perfettamente contestabile già all’epoca, dato che l’unità familiare non era mai stata compiutamente salvaguardata dal cognome patrilineare, come evidenziavo nel mio articolo “Perché al Figlio il Cognome del Padre?” del 1982 (->).
Quante volte nei loro scritti le donne hanno posto in rilievo il nesso forte e vincolante tra patriarcato e cognome dei figli nel corso di questi lunghi anni? Probabilmente occorrerebbe eseguire una ricerca esaustiva, che vada oltre i limiti della fuggevolezza di notizie che ci giungono solo attraverso i vari media. Sarebbe utile che uno studio di questa natura qualcuna oppure qualcuno lo facesse.
Per il momento mi limito a citare l’iniziativa di Giuliana Giusti, docente universitaria di organizzatrice del I Convegno “Lingua e Identità di Genere” del 2011, i cui atti sono stati pubblicati nel libro “Nominare per esistere: nomi e cognomi” dall’Università Ca’ Foscari.
Tra le relatrici che affrontano il tema del cognome troviamo Maria Pia Ercolini, che di lì a non molto ideerà il progetto “Toponomastica femminile”, per portare allo scoperto la cancellazione delle donne dai nomi delle strade del Paese, ottenendo peraltro, grazie alla sua azione energica e capillare cui altre donne si sono attivamente associate, che molti Comuni d’Italia accettassero d’intitolare a personalità femminili alcune strade (->).
È però sicuramente interessante notare come anche blog qualificati, che non avevano prima d'ora dedicato spazio alcuno al cognome materno e alle lotte che la sua assenza ha generato, dopo Strasburgo abbiano cominciato a prendere posizione al riguardo (-> ∆) riconoscendo la valenza simbolica del tema.
Per parte mia mi astengo dal riportare tutto ciò che negli anni ho scritto sulla violenza operativa del simbolo, sulla l’idea di liceità della soppressione della donna trasmessa alle giovani generazioni mediante la cancellazione del cognome femminile. Voglio però citare un piccolo brano di una mia breve intervista a Giuliana Giusti, pubblicata da un’altra testata. «Se il mutamento di abitudini linguistiche sui nomi comuni», avvocato/avvocata, ingegnere/ingegnera, «tocca un tasto sensibile, ancor più sensibile sarà la questione di identità individuale e sociale creata dal cognome». E ancora «Il fatto che la discendenza materna sia sempre oscurata, o sia messa in secondo piano (come continua ad accadere di fatto anche nei Paesi che hanno già adottato riforme) è un problema culturale forte» (da Dol’s magazine ->∆).
Quanto sia forte lo vediamo oggi che le prime voci su quel Ddl governativo, che dovrebbe rispondere con una modifica urgente del sistema patrilineare dopo la sentenza di condanna per l’Italia emessa dalla Corte Europea, davano per acquisita l’introduzione del cognome materno sotto il segno del consenso paterno. Se il papà è d’accordo sì, altrimenti no, pregiudiziale presente anche in talune proposte già alle Camere. Credevamo che fosse trascorso un secolo e mezzo dall’introduzione nell’Italia di fresca formazione unitaria dell’autorizzazione maritale, senza la quale le donne erano impedite e in qualsiasi attività lavorativa e nelle varie forme di vita familiare. Quell’abominio, contro cui Salvatore Morelli lottò a lungo, fu abolito soltanto nel 1919.
Forse l’ambiente politico italiano - non tutto, certo, ma in buona parte sì - ha nostalgia dell’ottocentesco scettro maschile, forse è la sopravvivenza di un comma perverso, il IV nell’Art. 316 Cc, che, nel riservare esclusivamente al padre i provvedimenti urgenti in caso di grave pregiudizio per il figlio, alimenta sogni di ritorno alla patria potestà in luogo della potestà genitoriale, forse è l’attesa di una genuflessione femminile alla rappresentazione fallica del mondo. Chi crede questo ha però fatto male i suoi conti. L’operazione non riuscirà ancora a lungo. Non esiste una macchina del tempo in grado di riportare all’abiezione il cammino imboccato dalla Storia.

Milano, 3.03.2014
©Iole Natoli


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