giovedì 29 ottobre 2015

Il DDL 1628 sul Cognome dei Figli nell’allegro Paese dei Balocchi

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Come ridurre in perfetto silenzio l’impatto innovativo di una Legge
L’Italia e il condizionamento emotivo delle donne (e degli uomini)
di Iole Natoli


È sorprendente come susciti ancora stupore che le donne siano spesso in conflitto tra loro, che stentino a riconoscere nell’altra “la donna”, che abbiano difficoltà a consociarsi per realizzare un obiettivo comune, che scelgano una figura maschile di riferimento, malgrado taluni mutamenti del costume sociale italiano.
È sorprendente perché la causa primaria si rivela, al contrario, evidente; soltanto una strategia di occultamento l’ha resa paradossalmente invisibile alle donne nonché a una parte degli uomini. Ad alcuni uomini ma certo non a tutti, non a quelli che vogliono mantenere i presupposti affinché il condizionamento perduri, continuando a produrre i suoi effetti. Divide   et impera. Scindi le donne dalla donna e avrai più potere su di loro. Di un simile potere innaturale, accresciuto da fattori successivi, si nutrirà la generazione maschile, che ne raccoglierà i frutti perversi con maggiore evidenza in casi limite, rendendosi protagonista di violenze e perfino di femminicidi e suicidi, che spesso seguono all’uccisione dei figli.
Il condizionamento programmatico di donne e uomini, previsto e anzi imposto dallo Stato, parte da molto lontano e si radica fortemente nell’infanzia.
Muove dalla norma che imponeva alle donne di sostituire il cognome del marito a quello (del padre) che aveva portato “da nubile”; si modifica un poco ma non troppo col diritto di famiglia del 1975, in base al quale per il 143-bis la donna non sostituisce ma aggiunge al proprio il cognome del marito (non previsto in alcun modo l’opposto); prosegue sino ai giorni nostri, come dimostra il DDL 1628, ovvero una legge in fieri che è stata approvata dalla Camera ESPELLENDO la norma di modifica del 143-bis discriminante, presente nel primo testo unificato.
Il disegno di legge di cui trattasi, che al momento dorme sonni beati al Senato, è quello che solo la bacchetta magica della Corte Europea di Strasburgo è riuscita a far emergere dalle acque stagnanti di uno Stato, che dal 1979 (data della prima proposta parlamentare) ad oggi si è sistematicamente rifiutato di metter mano a una riforma del cognome dei coniugi e dei figli che cancellasse la disparità ingiuriosa per le donne, rese ufficialmente subalterne al marito e fucine di prosecuzione biologica di una genealogia tutta al maschile.
Esiste, anche se non tutti lo sanno, un DPR che consente alla nostra popolazione di aggirare in qualche modo l’ostacolo, mediante una richiesta di modifica del cognome proprio o dei figli da presentare al Prefetto del Comune di nascita o di residenza, in cui si spieghi a chiarissime lettere il perché si desideri ottenere l’aggiunzione del cognome materno. Già, ma perché a una donna viene in mente che il figlio che LEI mette al mondo debba portare anche il suo cognome? Forse quello paterno non le piace, è bruttino, pesante, suona male?
Benché questa possibilità (e non diritto) ci sia, nella maggior parte delle famiglie italiane i figli   continuano a portare il solitario cognome del padre e raramente quello di entrambi i genitori.
Oggi, a dispetto del 143-bis che le obbligherebbe a declinare ogni volta le proprie generalità con l’aggiunta del cognome del marito, le donne usano nella maggioranza dei casi solo il proprio (salvo dichiarare di essere la signora Cognome-maritale in diverse circostanze quotidiane); ma se dimenticano che detta norma vessatoria esiste, contribuiscono in tal modo esse stesse a rendere maggiormente percepibile la scissione sia pure nominale, creata tra le madri e i loro figli da un diritto di concezione maschile.
Oggi sulla porta di casa spesso c’è il cognome di entrambi i coniugi, ma è a un cognome soltanto che i figli si relazionano quando devono dire chi sono, quando a scuola un insegnante fa l’appello, quando riceveranno i primi attestati scolastici, quando verranno presentati a nuovi amici, ovvero in tutte le situazioni di vita, che creeranno e rafforzeranno sempre più un deleterio vissuto specifico: tu esisti socialmente perché c’è un padre da cui hai avuto il cognome, senza di quello non avresti coscienza di te, nessuno ti chiamerebbe mai, tu saresti un’assenza, un vuoto a perdere. Chi ti permette l’inserimento sociale non è una donna - tua madre - ma solo un uomo, di conseguenza è all’uomo soltanto che dovrai continuare a riferirti per tutto ciò che dovrà garantirti la sopravvivenza e il futuro.
Questo è il messaggio, celato ma profondo, che passa attraverso l’attribuzione del solo cognome paterno alla prole, questa è la prima radice del condizionamento delle donne (e degli uomini) al quale altri condizionamenti seguiranno.
Dal linguaggio di tutti i giorni dei media (“IL ministro” che poi ha partorito, “IL giudice” che va in giro in gonnella, “IL presidente” di qualche associazione con un vivace rossetto sulle labbra, l’avvocatO di sesso femminile, “l’Uomo di governo” riferito a una donna anzi a due), alle rappresentazioni pubblicitarie e alle discriminazioni sul lavoro, tutto sembra richiedere alla donna una giustificazione del suo esserciAh, non sei UN ministrO? E come mai sei lì? Una rete di più o meno velati messaggi induce la donna a pensare che   essere nata uomo sarebbe stato sicuramente un vantaggio.
Ora se l’uomo è il soggetto facilitato, se è sempre l’uomo il modello sociale vincente, dovrai per forza competere con lui e quanto più gli assomiglierai tanto più potrai avere successo.
Costretta a pensare la donna come accessoria fin da quando ha cercato di riferirsi alla madre, costretta a confrontarsi con il potere degli uomini e con gli uomini al potere in tempi successivi, la donna cresce alienata da sé ed è già tanto se in queste condizioni riesce a sviluppare una coscienza che la ponga CONTRO il sistema vigente, sistema che va modificato sia perché la popolazione umana ha il diritto di crescere e vivere senza discriminazione alcuna tra i sessi, sia perché lasciare inalterati elementi e percorsi che inducono condizionamento negativo non può che alimentare il conflitto non solo tra donne (negate, perché non riconoscibili come riferimenti positivi) ma ANCHE, benché non lo si voglia comprendere, tra uomini e donne.
Non ci può essere serenità in presenza di repressione, non ci può essere pace in presenza di sopraffazione, non può esserci gratificazione positiva per chi si costituisce mediante un potere fondato sulla negazione della realtà umana da cui essenzialmente si proviene, la madre, dunque la donna.
Cominciamo allora a modificare la radice di tutti i conflitti successivi.
Questo significa in primo luogo che occorre reintrodurre il nuovo 143-bis, presente nelle proposte Garavini, Ghebard e Nicchi ed accolto nella prima versione del testo unificato.
Da notare, peraltro, che la permanenza obbligatoria dell’unilaterale 143-bis vigente, conseguente all’esclusione della modifica dal secondo testo unificato, riduce l’impatto di cambiamento della legge sul cognome dei figli.
Infatti:
1 - suggerisce alle donne (e anche agli uomini) che, qualsiasi cosa esse possano chiedere, in ogni caso sono esseri “minori” che necessitano di un timbro di natura patriarcale, quasi dovessero legittimare in tal modo la loro presenza nel nucleo familiare formato;
2 - fa apparire alle donne (e anche agli uomini) meno rilevante il richiedere che il cognome materno sia presente nel cognome dei figli insieme a quello paterno per rendere percepibile all’esterno il rapporto di filiazione;
3 - rende difficoltoso per la donna ottenere dal coniuge che i figli acquisiscano il solo cognome materno - scelta che la sentenza di Strasburgo ha definito legittima, essendo stata investita del problema proprio in merito a un caso di questa natura - in quanto i figli avrebbero un cognome da cui risulterebbe assente il cognome paterno, che però è invece presente in quello della madre, contraddizione logica patente. «Cara, ma se tu ti chiami già come me e io - oh, me negletto! - non posso invece chiamarmi col tuo cognome, che senso ha dare al frutto del nostro amore imperituro un cognome in più? Ma lasciamo le cose come stanno!».
Questo sembra essere proprio l’intento di quella soppressione irriguardosa e in contrasto con gli artt. 8 e 14 della CEDU che, in relazione tra loro, hanno motivato la Sentenza della Corte di Strasburgo.
Ah, certo, è stato modificato anche il nome del DDL 1628, che riguarda adesso unicamente il cognome dei figli! L’hanno pensata bene, a loro avviso, quelli che avranno premuto per riuscirci: Parliamo solo del cognome dei figli e così aggiriamo l’ostacoloUn errore davvero grossolanoGli articoli 8 e 14 della CEDU non esistono in quanto la Corte per i diritti umani li ha citati, nella Sentenza del 7 gennaio 2014; al contrario esistevano da prima, dalla creazione della Convenzione (detta CEDU) ratificata dall'Italia il 4 agosto 1955, con una legge che ne consacra il rispetto.
La sentenza di condanna dell’Italia è stata possibile perché quegli articoli OBBLIGANO a comportamenti giuridici e pratici, che sono stati nei fatti disattesi.
Questo significa che il permanere dell’art. 143-bis vigente può legittimamente indurre qualsiasi donna coniugata, con o senza prole, ad adire le vie legali per ottenere la rimozione della norma.
Potrà farlo se il DDL 1628 sarà approvato nella forma manchevole che ha adesso, ma potrà farlo anche prima, perché la violazione c’è già, è costante ed è manifesta.
Se vorrà dare il suo contributo all’eliminazione di ciò che offende la dignità delle donne tramandando la disuguaglianza e il conflitto, potrà farlo felicemente domani.
Questo tema è stato trattato più ampiamente nella relazione “La SVALORIZZAZIONE del FEMMINILE inculcata fin dalla nascita mediante il COGNOME della DONNA CONIUGATA e dei FIGLI. Una legge per il cambiamento”, nell’ambito del Convegno “Questioni di Educ-azioni”, svoltosi a cura della Fondazione Zaninoni il 20 marzo 2015, presso l’Ufficio Informazione di Milano del Parlamento Europeo (∆-->).

2 commenti:

  1. Non riesco a capire, nel testo prima si dice che "esiste, anche se non tutti lo sanno, un DPR che consente alla nostra popolazione di aggirare in qualche modo l’ostacolo, mediante una richiesta di modifica del cognome proprio o dei figli da presentare al Prefetto del Comune di nascita o di residenza, in cui si spieghi a chiarissime lettere il perché si desideri ottenere l’aggiunzione del cognome materno" successivamente che per ottenere ciò si deve avviare una causa legale. Quale è la procedura possibile e meno difficoltosa?

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  2. Caro Anonimo
    (uhm… ma perché siete tutti anonimi ultimamente voi che scrivete commentando post sul cognome?).
    Non si stupisca se ha fatto confusione. L’argomento è complesso e anche l’articolo che affronta due temi diversi benché collegati fra loro.
    Uno concerne l’aggiunta del cognome materno, l’altro il mantenimento di un articolo vigente, il 143-bis, che riguarda non i figli ma solamente le donne coniugate.
    Se per il primo - il cognome materno - va benissimo quanto Lei ha riportato sul rivolgersi al Prefetto ai sensi del DPR ecc. ecc., procedura abbastanza semplice e poco costosa, per il secondo - il 143-bis - la questione è diversa.
    In questo caso non c’è alcuna procedura prevista. C’è solo il mio suggerimento di ricorrere in Tribunale contro detta norma, azione possibile solo a una donna coniugata e non ad altre, in quanto si può agire in giudizio SOLO per una situazione che lede nel concreto la persona che ricorre, mentre non lo si può fare per un principio generale che non incida DIRETTAMENTE sul/sulla ricorrente, fosse pure il principio più bello del mondo.
    Grazie per l'attenzione.

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